Il ruolo della fiducia nella Fiorentina di Palladino: underdog e talenti rispolverati
Alcuni concetti che comunemente applichiamo al calcio, raccontandolo da addetti ai lavori o da semplici osservatori esterni, finiscono per assumere un senso astratto o di principio, perdono cioè la loro efficacia concreta e così si smarriscono. Uno di questi può senz'altro essere quello di fiducia: la Treccani ce la racconta come "Atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità". Come si traduce tutto questo nel linguaggio del pallone? Quanti e quali effetti può generare sul responso del campo?
La fiducia come riscoperta
Potremmo sottolineare innanzitutto come, citando Daniele De Rossi, "se uno è una sega resta una sega, non basta dirgli che è forte": la fiducia da sola non crea talento o non genera valore, chiaramente, ed è dunque evidente che qui si parli di qualità già esistenti che - per motivi vari - restano sotto silenzio, sotto qualche strato di polvere, richiedendo un qualche lavoro di riscoperta. La Fiorentina 2024/25, protagonista di un momento positivo e di un autunno fin qui perfetto dopo un avvio complesso del nuovo corso targato Palladino, trae la propria forza innanzitutto da quel processo di riscoperta e da quella che - di fatto - è la cifra ideale per un club che non vuole sperperare risorse, che vuole puntare sul rapporto qualità-prezzo per spingersi oltre ai limiti oggettivi del proprio fatturato, inferiore a quello delle big.
Andare a riscoprire il talento dove altri non lo vedono più, andare a rispolverare qualità sopite, è dunque una missione che Pradè ha voluto far propria ed è un approccio virtuoso che sta pagando con gli interessi, con tante diverse sfumature. Non si tratta di scommesse in senso stretto ma più di underdog, di elementi finiti fuori dalla luce dei riflettori, mossi proprio per questo dalla volontà di riconquistare un proprio posto nel mondo. Tante sfumature dunque: dall'ex stella finita nel dimenticatoio, come David De Gea, al giovane pupillo cresciuto in un vivaio ma chiuso dalla concorrenza e costretto a cercare spazio altrove (come Bove). Dal talento uscito dal radar delle big per trovare continuità, come Adli, all'eterno giovane che non matura mai fino in fondo e che ha perso confidenza con il gol (ed è il caso di Kean, dell'aura che lo circonda da anni come uno stigma duro a morire).
Voglia di rivalsa e nuova centralità
Poche scintille sanno essere così motivanti come l'urgenza di dimostrarsi all'altezza, anche per mero senso di rivalsa, ed è evidente come tutti i casi citati abbiano in sé un desiderio (anche se non distruttivo, non velenoso) di far ricredere qualcuno. Non si tratta di profili citati a caso ma di veri e propri pilastri del nuovo corso gigliato, la definizione di pilastro del resto non è aliena alla storia di De Gea, a lungo nella top 5 dei migliori portieri al mondo e intrappolato in un contesto - come quello dello Manchester United - che spesso sa disperdere valore e talento come pochi altri: lo spagnolo, nonostante fosse fermo da un anno, si sta godendo una nuova giovinezza ed è riuscito dove numerosi colleghi avevano fallito in precedenza, relegando effettivamente Terracciano al ruolo di "portiere di coppa". Il tutto con un ingaggio distante da quello monstre che caratterizza i suoi trascorsi ai Red Devils, del tutto distante - a conti fatti - anche dall'effettivo valore tecnico del giocatore.
Il caso di De Gea appare dunque curioso e insolito di per sé, trattandosi di un elemento certo non definibile come underdog, mentre pensando ad Adli e a Bove emerge con forza ancora maggiore la necessità di fiducia intesa come continuità in campo: tante le belle parole spese, anche nella scorsa stagione al Milan e alla Roma, ma un minutaggio non in linea con le "sensazioni positive" e coi buoni propositi. In questo senso dalle parole occorreva passare ai fatti: da un lato Adli, grazie alla propria tecnica, va a comporre con Cataldi una mediana ben assortita e tutto sommato complementare, agendo da ideale direttore d'orchestra, mentre Bove ha esaltato quelle doti di jolly già note e sembra aver trovato finalmente un'identità più definita e slegata dalla definizione di "cane malato". Il centrocampista di scuola Roma è stato reinventato da Palladino come atipico esterno offensivo di sinistra ma, nel concreto, abbina un lavoro prezioso in entrambe le fasi e si è emancipato dal ruolo di mediano tutto corsa e foga agonistica: un profilo completo già indispensabile per la macchina viola (anche in fase offensiva, forte di tre assist e un gol già all'attivo).
Ultimo, ma decisamente non ultimo, Moise Kean: il ruolo della fiducia in questo caso appare il cardine dell'intero discorso, non si tratta soltanto di minutaggio ma di una centralità mai vissuta prima in carriera. Palladino, già in estate, ha chiesto a gran voce l'arrivo del classe 2000 (lo voleva del resto anche al Monza) e ne ha fatto - senza indugi - il centravanti titolare della Fiorentina: nessun altro arrivo in attacco e nessun dualismo ma, semplicemente, l'idea di renderlo il fulcro offensivo ideale della sua squadra (anche al di là del modulo scelto). L'ex bianconero ha ripagato con gli interessi e lo ha fatto al di là degli 8 gol segnati in campionato: ciò che colpisce è il suo lavoro spalle alla porta del difendere il pallone, la sua capacità di pressare e aggredire i difensori, una voglia di darsi per la squadra che racconta efficacemente il peso di quella fiducia, anche dell'intera piazza, che fa da scintilla e ridefinisce ciò che appariva compromesso.