Milan come caso eterno: le tappe e i volti di un idillio mai sbocciato
Ritenere che una piazza equivalga a tutte le altre, che le dinamiche interne a un club siano ovunque le stesse, sarebbe fin troppo superficiale e non terrebbe conto del peso specifico - di un carico storico e simbolico - che si accompagna indelebilmente ad ogni società calcistica. Il Milan in questo senso fa storia a sé, anche al di là dei risultati ottenuti in tempi recenti: esiste di fatto un presupposto di DNA o di status che la piazza richiede a chi si veste di rossonero, un'implicita richiesta di esserne "all'altezza". Una sorta di vizio che rende necessariamente in salita il percorso di chi si affaccia in quel mondo, lo si è visto a suo tempo in modo emblematico con Stefano Pioli e con la macchia pregiudiziale che - prima dell'escalation da Scudetto - lo seguiva agli albori del suo percorso milanista (tra l'ironia social e i #PioliOut a priori).
Il Milan e i tanti casi: temi e protagonisti
La situazione sembra ripetersi con Paulo Fonseca, scelto dalla dirigenza per sostituire lo stesso Pioli: le vittorie prestigiose nel precampionato e (ancor di più) il successo nel derby, tale da salvarne la panchina circa un mese fa, non rappresentano un bagaglio sufficiente per sancire un idillio e - anzi - ogni settimana è ricca di spunti (concreti o mediatici) in grado di generare l'ennesimo caso, di riportare i protagonisti del mondo Milan sul banco degli imputati. La voce grossa di Fonseca in conferenza stampa, "se abbiamo qualche problema, non me ne frega un cazzo del nome del giocatore" e "per me nessun giocatore è più importante della squadra" si lega in modo evidente a quanto accaduto prima della sosta (a Firenze) e trova una possibile sponda anche nell'atteggiamento di Rafael Leao e nelle sue parole dal ritiro della Nazionale.
La sensazione costante, con cui fare sistematicamente i conti, è quella di un Fonseca chiamato a "imporsi" su calciatori dall'aura più imponente della sua, perlomeno agli occhi dei tifosi, senza considerare come anche dietro la scrivania - con riferimento a Zlatan Ibrahimovic - non manchino figure in grado di adombrare l'autorevolezza del portoghese agli occhi della piazza rossonera. Un esame costante che si lega da un lato al presupposto implicito di cui sopra, dimostrare di "essere da Milan", ma che trova un ostacolo ulteriore nelle ruggini e nelle situazioni deleterie (impossibili da ridurre a mere trovate giornalistiche) esplose fino qui. Da un lato, quindi, Fonseca deve costantemente dimostrare di meritare il proprio posto - allontanando fantasmi ingombranti e di prestigio dei tecnici che i tifosi avrebbero sognato - d'altro canto il Franchi e l'Olimpico, in questa prima parte di stagione, hanno sancito possibili tappe in grado di minare un equilibrio già precario.
Il cooling break vissuto in disparte dalla coppia Leao-Theo Hernandez, dopo l'esclusione dai titolari, il nervosismo del francese e le gerarchie non rispettate dal dischetto a Firenze (ancor di più) si sommano a un Leao che dal Portogallo presta il fianco a possibili confronti tra Fonseca e Martinez nella sua gestione, nella fiducia rivolta al funambolico e talvolta discontinuo attaccante. Ecco dunque che ognuno di questi casi, in sé, non meriterebbe di essere amplificato oltremodo ma, sommandosi, gli episodi vanno a comporre un mosaico poco invidiabile, anche complesso da leggere. La sensazione comune, poi, è che alzare la voce comporti necessariamente un senso di disagio alla base: può valere per il tono attuale di Fonseca ma, ancor di più, per le esternazioni di Ibrahimovic a margine di Milan-Liverpool: un tipo di retorica e di atteggiamento che non fa che enfatizzare l'idea di un caso perpetuo, del passaggio da uno spigolo all'altro, senza poter trovare finalmente un risvolto costruttivo nel racconto del presente rossonero.