5 (+1) acquisti che ci raccontano Walter Sabatini

Walter Sabatini, il direttore sportivo che più ricorda un personaggio di Clint Eastwood
Walter Sabatini, il direttore sportivo che più ricorda un personaggio di Clint Eastwood / FILIPPO MONTEFORTE/Getty Images
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Il direttore sportivo spesso non è altro che un mediatore tra le esigenze dell'allenatore e il portafoglio del suo presidente, che filtra i desideri di entrambe le parti attraverso la rete di talent scout, conoscenze e intuizioni, per poter infine accontentare tutti. Walter Sabatini è così iconico, forse, perché questa descrizione non lo riguarda in alcun modo. Finanze e richieste del tecnico son solo dei (neanche troppo invalicabili) limiti che lo guidano nella ricerca del calciatore che più lo affascina, che più gli fa battere il cuore, per l'ansia di preparare la trattativa in tempo prima che qualcun altro glielo soffi via, e per le centinaia di sigarette fumate, magari perché la trattativa è sfumata, magari perché è riuscita. Se è vero che se si vuole davvero conoscere un'artista, bisogna conoscere la sua artista, ho selezionato 5 colpi (+1 non andato in porto) che ci possono aiutare a delineare il Sabatini uomo, mai separato dal Sabatini direttore sportivo, come lui stesso ci tiene a precisare, e il suo rapporto con il calcio.

Con l'immancabile Marlboro
Con l'immancabile Marlboro / Maurizio Lagana/Getty Images

Gervinho

Giuseppe Bellini/Getty Images

Gervinho arriva a Roma per una cifra relativamente bassa, 8 milioni di euro, e riesce nei tre anni all'ombra del Colosseo, a fornire delle buone prestazioni, tra alti e bassi. Il capolavoro (uno dei tanti) di Sabatini, qui, è stato riuscire a vendere un trentenne, che non faceva della continuità la sua caratteristica peculiare, a 18 milioni, sebbene con l'aiuto dell'ostentante, almeno ai tempi, Cina. Sabatini parlerà dell'acquisto di Gervinho, in futuro, mascherandolo quasi come un'opera di bene: scottato dal termine "trafficante di uomini" per definire il suo lavoro, termine a dir poco inappropriato, porta proprio l'esempio dell'ivoriano, a dimostrazione dell'ipocrisia che si rivela quando il calcio entra nel discorso pubblico.

"Gervinho, della Costa d’Avorio, a Roma aveva una famiglia mostruosa, manteneva 25 persone, in Africa è cosi, se uno ha soldi e successo si trascina dietro una comunità. Quando si parla di calcio tutti vedono malaffare, sfruttamento, dove invece c’è solo un’opportunità di lavoro. C’è sempre un certo razzismo culturale: se arrivi alla Scala per studiare danza sei un artista promettente, che sfrutta un’occasione, se arrivi dal Ghana in Italia per giocare a pallone sei vittima di chissà quali abusi, mazzette e delinquenti"

Walter Sabatini

Queste parole non fanno altro che denotare due cose di Sabatini: il profondo rispetto che ha, ed esige, per il proprio lavoro, ma anche, in una dimensione più personale, una coscienza civile e sociale tutt'altro che atrofizzata dal successo personale, anzi, il ritratto che ne esce fuori è di un uomo consapevole e politico.

Radja Nainggolan

Paolo Bruno/Getty Images

Sabatini ribadisce spesso il fatto che lui non abbia un metodo, ed è orgoglioso di questo. Il suo è un calciomercato fatto di prepotenza, di fiati sul collo, di artigli rapaci, ma che ha bisogno anche di un solido scudo. L'immediatezza è la base del suo lavoro, ma per agire Sabatini ha necessità di sentirsi coperto, compreso e appoggiato, proprio come nella trattativa che portò il Ninja a Roma dalla Sardegna. Nove milioni per la comproprietà di un giocatore del Cagliari, per quanto avesse già dimostrato tutto il suo valore, era una cifra che fece discutere, che attirò molte critiche e perplessità sull'operato del d.s. dei giallorossi, che però ottenne tutta la fiducia da parte della società, che gli permise di chiudere il contratto e di avere ragione sul giocatore, a posteriori. L'atteggiamento asfissiante, duro, arrogante nel calciomercato si lega proprio a quello che Nainggolan era in campo, una mastino che cercava la palla, il giocatore avversario, correva in continuazione, ma che aveva sempre una squadra attorno, in questo ruolo a metà tra un leader e un cane a briglia sciolta. Sabatini ricorda la trattativa come la più logorante della sua carriera, tra sigarette, chiamate alle 4 del mattino e Cellino che fa l'antipatico, dimostrando di vivere il suo lavoro nel modo peggiore in cui potesse farlo, che è anche quello che lo fa sentire più vivo.

Marquinhos

Giuseppe Bellini/Getty Images

Sabatini è, come già detto, prima di tutto un direttore sportivo. Un ottimo direttore sportivo, che, in quanto tale, ha venduto la sua anima (lui dice che la sua anima è talmente complicata che non la comprerebbe nessuno) alla plusvalenza. Il rapporto tra Sabatini e la plusvalenza arriva quasi ad assomigliare a quello di una dipendenza, che sfocia nell'esagerazione, nell'overdose. È Marquinhos l'overdose di Sabatini. Comprato da un Corinthians in eccedenza di centrali difensivi, a soli 18 anni, per poco più di 5 milioni, Marquinhos è il solito brasiliano, centrale di difesa che verrà paragonato ora a Thiago Silva, ora a Lúcio, fallendo miseramente. E invece no. Sarà che a Roma il paragone vira su Aldair, sarà che Zeman è un'incubatrice per i giovani calciatori talentuosi, Marquinhos in una sola stagione si prende la difesa giallorossa e anche la sua curva. La sua esplosione è stata breve e intensa, e nell'estate successiva il PSG decide di requisire il giovane brasiliano, al prezzo di 31 milioni e mezzo di euro. È in queste situazioni che Sabatini si corrompe l'anima: la vendita di un giocatore giovane e di talento, scoperto da lui, fa male, ma il piacere di quella plusvalenza, di quel gigantesco riconoscimento al proprio lavoro, lo tranquillizza, e gli inietta quella vaga e rarefatta sensazione di piacere nel sangue.

Salih Uçan

Robert Prezioso/Getty Images

Quando Sabatini lascia la Roma, la squadra dove più di tutte ha dato in modo completo e totale sé stesso, parla di un calcio, di una società che ormai cercava giocatori forti statisticamente, di scouting che rinuncia alle partite e va sui freddi numeri, insomma un modo di lavorare che non gli apparteneva. Il suo calcio è istinto e immaginazione, rischio e speranza. Queste quattro cose, insieme in un calderone, hanno portato all'acquisto di Salih Uçan. Perché Salih Uçan e le statistiche non erano certo migliori amici. Pochi chilometri percorsi, pochi passaggi chiave, pochi scatti, una precisione non sopra la media: a vedere i numeri non possa essere stato un solo motivo perché Sabatini, in quel Fenerbahçe-Lazio, si innamorasse del trequartista turco. Col senno di poi, quelle statistiche forse avevano ragione, ma non è questo il punto. Quello che ci dice Salih Uçan è l'amore che Sabatini ha per un calcio che sta tutto nei sogni, per quel calcio spensierato dove un giocatore, magari anche scarso, diventa il nostro idolo, o il nostro pupillo, senza nessuna ragione in particolare.

Erik Lamela (+ Lucas Boyé)

FILIPPO MONTEFORTE/Getty Images

Per un uomo così, cosa c'è di meglio del Sudamerica? Patria dei giocatori che solo nominandoli si portando sulle spalle quella mitologia del calciatore argentino un po' pazzo, che segna tanto, che diverte, che stupisce. Lamela è stato tutto questo. 12 milioni più bonus la cifra sborsata dai giallorossi per strappare alla concorrenza e al River Plate il classe ’92, in modo da presentarsi al meglio alla nuova proprietà. Dopo i primi fisiologici mesi di ambientamento, l'argentino ingrana la marcia, per poi esplodere e mettere il turbo nella sua seconda stagione romana, sotto la guida del solito boemo lancia-giovani. 15 gol, per un esterno, fanno gola a mezza Europa, ma alla fine la spunterà il Tottenham. La cessione di Lamela ci racconta l'aspetto più drammatico di Sabatini: la sua passione e il suo ardore sono anche sentimenti oscuri, negativi, che lo portano a vivere il suo lavoro con un eccesso di sentimento, di impeto, che può portare anche a momenti tristi, o rabbiosi. Cedere Lamela, dice Sabatini, "lo ha ucciso". Sempre nella trattativa Lamela, ma quando era in dirittura d'arrivo, disse che se sbagliava quest'acquisto, avrebbe lasciato. Ogni stop sbagliato da un "suo" giocatore, lo affossa. Non ci sono mezze misure con Sabatini, la sua è una vita intensa, drammatica, passionale. Ed è con un acquisto non avvenuto che dimostra quanto lui soffra, quanto davvero Sabatini non è più un uomo, ma un direttore sportivo. Al netto di incomprensioni, di visioni diverse e di risultati non ottenuti, la goccia che ha spinto Sabatini a lasciare la Roma, il suo grande amore ("Ho vissuto solo per la Roma"), è stato il mancato arrivo di Lucas Boyé. Già, chi è Lucas Boyé? Giocatore del Newell's Old Boys, era il pallino di Sabatini, che però non riuscì ad avere quell'immediatezza, colpa anche del presidente Pallotta che non lo appoggiò completamente, per accaparrarselo. Boyé arrivò comunque in Italia, al Torino, e sono sicuro che nessun tifoso romanista lo rimpiange, l'ennesimo attaccante argentino detto "El Tanque" che in 186 partite ha segnato 18 gol. Sabatini ha lasciato la squadra che ha amato, che ha costruito, perché non era riuscito a regalarle questo giocatore. Di uomini che vivono il calcio così visceralmente ce ne sono pochissimi, e, forse, preferisco così, per godermi ancora meglio l'unicità di una persona come Sabatini.


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