Le 5 ragioni per cui l'Italia di Mancini sembra una squadra di club

Esultanza azzurra
Esultanza azzurra / Claudio Villa/Getty Images
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Se in tanti, osservando il ciclo avviato da Roberto Mancini alla guida della Nazionale italiana ormai tre anni fa, attendevano l'Europeo come vero banco di prova, in assenza di sfide ritenute (fatte salve rare eccezioni) abbastanza provanti nella lunghissima striscia positiva intrapresa, resta da osservare un fatto sempre più complesso da nascondere: non c'è niente di estemporaneo o di casuale, anche ben al di là dei record, nel percorso avviato e ormai entrato a pieno regime.

Un discorso, questo, che prescinde da quel che accadrà a livello di risultati, da dove insomma arriverà l'Italia a Euro 2020, e che ha portato tifosi e addetti ai lavori a notare qualcosa di peculiare, di curioso, nelle caratteristiche di questa Nazionale: ha i tratti di una squadra di club e questo, per certi versi, è ciò che più la distingue da altre Nazionali, anche più attrezzate sulla carta, impegnate in questi giorni nell'Europeo.

Dopo un gruppo A disputato nel migliore dei modi, con 7 gol fatti e la porta inviolata, proviamo dunque a entrare nel merito e a capire perché questa Nazionale somiglia davvero a un club, con tutto ciò che positivamente ne deriva:

1. La coesione del gruppo

Leonardo Bonucci, Matteo Pessina, Lorenzo Insigne
Gioia azzurra dopo l'1-0 sul Galles / Mike Hewitt/Getty Images

Quel che salta più all'occhio, probabilmente, anche al di là da disamine di natura tattica o statistica: quel che conta, certo, sono i risultati ma, d'altro canto, è evidente e lontano da qualsiasi luogo comune l'aria di entusiasmo e di condivisione che (anche dall'esterno) si percepisce nel gruppo costruito da Mancini e forgiato nel corso degli ultimi anni. Un gruppo multiforme, ricco anche di sorprese, in cui è venuto provvisoriamente meno il senso di appartenenza ai singoli club per approdare a un senso d'identità inedito: una questione che passa dall'intesa sul campo, dai sorrisi di chi resta fuori, dall'atteggiamento mostrato in allenamento e anche dai minimi gesti di giocatori e staff.

2. L'identità tattica

Roberto Mancini
Le indicazioni di Mancini / Claudio Villa/Getty Images

Il gruppo è coeso, dunque, e lo spirito sembra quello più costruttivo possibile ma, al contempo, l'identità tattica riconoscibile costruita da Mancini fin dal suo arrivo assume un ruolo centrale in questo nuovo corso che, agli Europei, sembra dare dei bei frutti. Non sono mancati esperimenti, a livello di nomi e di modo di interpretare il modulo, ma di fatto il 4-3-3 è stato fin da subito il marchio di fabbrica su cui il CT ha scelto di lavorare. E la scelta ha premiato in modo evidente, costruendo una squadra e non un insieme di singoli, un collettivo in cui è ben chiaro il ruolo di ognuno, in cui soprattutto le caratteristiche dell'individuo risultano funzionali al gioco. Un discorso per certi versi insolito pensando alle Nazionali in senso più ampio e a quella azzurra più in particolare: non più la sola ricerca della solidità difensiva e della compattezza, ma la capacità di rivelarsi aggressivi nel pressing, abili nella costruzione, abbinando efficacia ed estetica quando si tratta di finalizzare.

3. Il ruolo delle "riserve"

Matteo Pessina
Il gol di Pessina / Quality Sport Images/Getty Images

Parlare di riserve non è onesto in questo senso, ci riferiamo del resto a nomi importanti anche valutando chi resta fuori, ma è evidente come la logica del turnover (talvolta fatale nella storia azzurra) faccia oggi meno paura. Il livello di chi trova meno spazio è all'altezza, senz'altro, ma quel che fa la differenza è l'atteggiamento di chi subentra, con l'apice estremo toccato dalla riconoscenza di Sirigu per lo scampolo di partita offerto nel finale, inatteso. Mancini, dunque, sa che anche perdendo protagonisti importanti (il caso Verratti-Locatelli è stato fin qui emblematico) ha una rete di sicurezza formidabile su cui contare, senza spazio per insofferenza o reazioni scomposte di fronte a una panchina di troppo.

4. No alle manie di protagonismo

Federico Bernardeschi, Giacomo Raspadori
Raspadori per Bernardeschi / Andreas Solaro - Pool/Getty Images

Aspetto connesso profondamente sia alla coesione del gruppo che al ruolo dei cosiddetti rincalzi: non è questa una Nazionale di "prime donne", un'accozzaglia insomma di individui pronti a sgomitare per mettere in ombra il compagno. Esiste una sorta di spirito solidale tra i compagni di squadra, mai come in questo caso sembra che tutti siano utili ma nessuno indispensabile in assoluto: certo la regia di Jorginho sembra un punto focale e irrinunciabile ma il discorso è costantemente proiettato sul collettivo, non sul singolo che rivendica uno spazio o che si sente intoccabile a priori.

5. La partecipazione dei tifosi

Il tifo azzurro
Il tifo azzurro / Antonio Masiello/Getty Images

Ultimo ma non ultimo, in questo percorso, il ruolo dei tifosi: non è raro che la Nazionale unisca, evidentemente, ma al contempo non sono mancate nella storia situazioni in cui la partecipazione popolare era più fredda, turbata da un certo scetticismo, offuscata dall'esigenza di criticare prima che di godersi lo spettacolo. E come il tifoso sente le sorti del proprio club, in modo viscerale e partecipato, sembra che stavolta accada anche coi colori azzurri, con la voglia di gioire che supera l'esigenza di sostituirsi al CT o di farsi prendere dalle antipatie dovute a questioni di tifo, per questo o quel giocatore.

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