A game to play - Perché Wayne Rooney è come i Kaiser Chiefs

Il successo come croce e delizia, la gestione della popolarità come nodo critico
Ricky Wilson
Ricky Wilson / SOPA Images/GettyImages
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Le categorie aiutano, ci consola la possibilità di sapere in quale scompartimento inserire qualcuno o qualcosa, assegnandogli un'etichetta destinata a durare. Il calcio, come la musica, ci consente di eleggere a mito incrollabile una data figura, di elevarne lo status e di ritenerlo eterno, assoluto. Al contempo, dal lato opposto, sappiamo anche porre lo stigma o il timbro negativo quando pensiamo sia il caso: costruiamo una suddivisione netta tra inferno e paradiso, scordandoci il percorso che li lega, dimenticandoci ogni forma di limbo o di purgatorio. Eppure la maggioranza risiede proprio lì, si colloca a metà tra il richiamo della gloria e quello dell'oblio o dell'indifferenza: gli occhi di tutti addosso, insomma, si tramutano col tempo (neanche troppo) in una storia diversa, quella di uno sconosciuto che parlandoti t'infastidisce, mentre avresti altro da fare. Il megafono della fama si trasforma così in un silenziatore: i numeri hanno un peso oggettivo, sì, ma la memoria non lo sa.

Successo come chimera, gloria come nemico

Qui si trova un primo punto di contatto tra Wayne Rooney e i Kaiser Chiefs. Non si tratta di seguire il cliché del genio e della sregolatezza, in questo caso, o di rimestare soltanto nel torbido, appellandoci a vizi e derive emerse negli anni. Si tratta soprattutto, ce lo permettono il calciatore e la band presi ad oggetto, di scoprire una naturale e fisiologica forma di invecchiamento, di deterioramento, di passaggio graduale dal vigore vulcanico della gioventù ai dubbi, alle incertezze e ai fallimenti della maturità. Il riferimento ai vizi e alle derive non si lega agli eccessi e al lusso, perlomeno non come presupposto di partenza, ma trova una fondamentale relazione, una vera equazione tra mondi apparentemente distanti, nelle forme in cui un giovane calciatore o una giovane band (con specifico riferimento al leader Ricky Wilson) si trovano a reagire alla fama, alla gestione della popolarità, a tutto ciò che ne deriva. Si tratta di scoprire il distacco tra le aspettative di un pubblico che venera e tutto ciò che resta sotto al tappeto, in entrambi i casi incontriamo ambizioni così tenaci da condurre al successo, senza però un libretto delle istruzioni che permetta poi di dominarlo.

Ci sono, del resto, periodi in cui ti lanci sulla folla e questa ti sostiene e ti fa volare, ce ne sono altri in cui replichi lo stesso gesto ma ne ricavi solo un tonfo: l'accostamento tra la band di Leeds e l'attaccante di Liverpool ci trasmette quel passaggio, con tutto quel che si trova tra i due estremi e col percorso necessario per risalire (dopo essersi curati le ferite). Il punto di partenza, come spesso accade all'interno di questo gioco di accostamenti, offre già elementi di contatto: si parte insomma dal successo giovanile, dal timbro di predestinato e dalla richiesta continua di doverlo giustificare, alimentandolo nel tempo. Nel caso di Rooney tale timbro arrivò realmente agli albori della carriera da calciatore: esordio a 16 in prima squadra, con l'Everton, e immediata sensazione (fin dal 2002/03) di trovarsi davanti alla nuova stella del calcio inglese, il proverbiale Wonder Boy.

Kaiser Chiefs, Ricky Wilson
Kaiser Chiefs / Shirlaine Forrest/GettyImages

I Kaiser Chiefs non erano altrettanto giovani nel momento del più grande successo a livello di singoli, quello di Ruby (2007), ma raggiunsero vette sorprendenti anche fuori dal Regno Unito e realizzarono quello che - tutt'ora - rimane il loro brano più popolare (come peraltro dimostrano i 55 milioni di visualizzazioni su YouTube e il numero di streaming su Spotify, di gran lunga superiore a quello degli altri loro pezzi più noti). Il periodo che parte dall'album Employment (2004) e arriva a Yours Truly, Angry Mob (2007) corrisponde a quanto vissuto da Rooney nel momento della sua esplosione, del passaggio da promessa a realtà del calcio inglese. Ricky Wilson ha approfondito il tema del successo come chimera e come sciagura, come obiettivo o come inizio della fine, lo ha fatto al Guardian sottolineando da un lato "l'ossessione per il successo che muoveva i Kaiser Chiefs" e ponendo come contrappunto il "facile bersaglio" che si diventa sulla scia del successo stesso, quello che rende gli altri autorizzati a "parlare male di te".

A game to play, gli altri capitoli:

Fuori dai binari: la deriva dei tabloid

Nella stessa intervista Wilson racconta di non essersi mai sentito realmente fatto per essere una rockstar o per diventare un frontman di una band di successo, per certi versi un racconto che incontra quanto condiviso da Rooney (al podcast del rugbista Rob Burrow) e che si rifà a una gioventù tutt'altro che orientata al culto di sé, della propria affermazione e della popolarità. Rooney segue la stessa linea di Wilson e dichiara, sostanzialmente, di non essere stato pronto a gestire tutta quella pressione: "La mia liberazione è stata l'alcol fin da quando avevo poco più di 20 anni. Andavo a casa e passavo un paio di giorni lì senza neanche uscire. Bevevo quasi fino a svenire". Subentra qui il tema dell'alcol, seguito di pari passo dalle disavventure, dalle critiche e dal contributo dei tabloid, pronti ad affondare le mani nella ricerca di un "lato oscuro".

Una parodia di Ruby...a tema Rooney:

Nel caso di Ricky Wilson e dei Kaiser Chiefs si sottolinea, sulla stessa falsa riga del discorso di Rooney, come il nome della band sia finito per salire alla ribalta per questioni ormai slegate dai successi musicali (divenuti dal 2011 in poi lontani dai fasti di un tempo): si cita a titolo di esempio tutto il polverone alzato da un concerto all'O2 di Londra, uno show nel corso del quale cui Wilson si mostrò poco lucido (tanto da scusarsi successivamente parlando al Sun). "La verità è che ho sbagliato allo O2, ricadendo nelle vecchie abitudini alcoliche. Un errore che ha deluso molti di voi e alcune delle persone a me più vicine" sono le parole di Wilson a commento di quanto accaduto in quel concerto, segnato da testi dimenticati, dall'assenza di voce e dall'evidente difficoltà del frontman a tenere il palco.

Cambiare per (r)esistere

Sia nel caso di Rooney che dei Kaiser Chiefs si ravvisa tra l'altro la necessità (o la volontà) di cambiare strada o di cambiare ruolo per potersi adattare, si nota insomma un percorso di maturazione accompagnato da cambiamenti: riferendoci a Rooney possiamo ovviamente citare la sua evoluzione tattica e un profilo di attaccante estremamente votato al sacrificio, in grado di abbinare qualità balistiche a generosità da centrocampista, tanto da completare poi il percorso arretrando il proprio raggio d'azione e agendo a tutto campo. Allo stesso modo, anche se con esiti meno confortanti, i Kaiser Chiefs hanno iniziato un percorso di ricerca di sé - di una nuova identità musicale - per rinnovarsi dopo i primi due album di successo, un percorso che li ha visti abbracciare sonorità "alla Bowie", virate improvvise verso la dance o il pop da classifica, sporadici ritorni alle origini indie-rock o album (come l'ultimo, Easy Eight Album) caratterizzati da una produzione ingombrante e da sonorità orientate al funky, ai riferimenti agli '80 e alla malcelata ricerca della hit.

Jolan, Ricky Wilson, Kevin Simm
Wilson a The Voice / David M. Benett/GettyImages

Accanto alla necessità spesso fisiologica di "cambiare per resistere" (o per continuare ad esistere) si può sottolineare come sia Rooney che il frontman dei Kaiser Chiefs abbiano intrapreso, dopo la loro carriera principale, avventure diverse (pur restando nei rispettivi campi d'azione): l'ex United ha avviato una carriera da allenatore che, fin qui, non lo ha ancora visto spiccare definitivamente il volo (allenerà il Plymouth in Championship nel 24/25); Ricky Wilson dal canto proprio si è reinventato come vocal coach di The Voice UK e come conduttore radiofonico, affiancando dunque alla carriera coi Kaiser Chiefs (tra nuovi dischi e live) un percorso diverso.

Wayne Rooney
Rooney nelle vesti di tecnico / James Gill/GettyImages

Il filo conduttore individuato stavolta ci parla della gestione critica del successo, ci racconta di un riconoscimento popolare spesso solo parziale e condito dai se e dai ma. Una descrizione plastica della linea sottile tra la gloria dei grandi numeri e il rischio di scivolare nell'oblio, nella distrazione - tra copertine e clickbait - da ciò che realmente definisce il valore indelebile e oggettivo delle cose.