Abel Balbo, "El killer" silenzioso
Gli argentini hanno sempre avuto un rapporto particolare con l'Italia. Forse perché il Belpaese ricorda per certi versi la loro patria, forse perché il 50% degli argentini hanno discendenze italiane, insomma sono due paesi strettamente legati culturalmente e genealogicamente. Anche a livello calcistico, basti pensare alle due più importanti squadre argentine, il Boca Juniors e il River Plate, fondate entrambe (in parte) da emigranti genovesi (non a caso i tifosi e i giocatori del Boca vengono chiamati xeneizes, genovesi). Senza parlare, poi, del filo più spesso di questa fune che collega i due Paesi, Maradona.
Quando Abel Balbo comincia a calciare i primi palloni per strada (troveremo mai la storia di un calciatore argentino che non inizia in questo esatto modo?) ha poco più di quattro anni, e in pochi anni dall'asfalto e dal tufo passa ai campetti della squadra della sua città, Empalme Villa Constitución. Non cambiava quasi nulla per quanto riguarda il terreno, ma la sensazione era completamente diversa: correre con una maglia indosso, uguale a quella dei tuoi compagni, giocare per segnare, per dimostrare quanto si vale, è il piccolo teatro che nei tuoi sogni ti porterà a Broadway. In quegli anni, negli anni '80, Broadway era la Serie A. Anche Balbo la sognava la sua Broadway, ma il percorso da fare per raggiungerla non era dei più semplici. Abel non era un ragazzo prodigio, non era una stella assoluta, era però un centrocampista con il vizio più bello del mondo: quello del gol. Chi lo conosce ne parla come di una persona educata, gentile, anche studiosa e diligente da giovane, caratteristiche che forse lo rendono più noioso come personaggio da raccontare, ma anche più unico, più distinto rispetto al panorama calcistico a cui siamo abituati. L'Independiente lo nota, gli vuole far fare il provino, ma il destino ha altro in mente per lui: il datore di lavoro di sua sorella Claudia si rivela essere anche il vice-presidente del Newell's Old Boys, e Balbo vestirà la maglia rossonera. Viene spostato ad attaccante, perché un attaccante lo vendi sempre ad un prezzo maggiore di un centrocampista, dopo il primo anno tra i professionisti passa al River Plate. Doloroso, forse, per un tifoso del Boca come lui, ma lo xeneize che c'è in lui lo porterà a vestire anche la maglia blu e oro. Quattro partite, le ultime della sua carriera, che lo ripuliscono dalla banda rossa dei Millionarios.
In realtà però, al River era in prestito. Lui in Italia c'era già, praticamente, perché la squadra che lo aveva prelevato dal Newell's era il Verona, che però lo aveva bocciato e, appunto, rispedito in prestito in Argentina. Vedere un sogno realizzarsi e poi svanire in un così piccolo lasso di tempo deve essere stato un brutto colpo per il giovane Abel, ma, si sa, i brutti colpi ti danno anche la possibilità di rialzarti e colpire anche tu. E Balbo colpisce la rete con il River e riesce a far colpo anche sul CT dell'Argentina, che lo convoca per la coppa continentale, e sull'osservatore dell'Udinese che guardava la Copa América per cercare di ingaggiare il suo ex (e futuro) compagno di squadra Néstor Sensini. Scendeva in campo con il numero 3, perché ai tempi i numeri venivano assegnati per ordine alfabetico (Maradona non era il decimo, ma per lui si faceva un'eccezione). In coppa mostra talento, pur non segnando, ma il Verona non poteva permettersi un altro straniero, così Balbo viene ingaggiato insieme a Sensini proprio dalla squadra bianconera. Finalmente ha raggiunto l'Italia, ormai diventata la meta per eccellenza di ogni argentino, perché lì, a Napoli, che Diego aveva vinto da poco la Coppa UEFA, e quell'anno vincerà il suo secondo scudetto.
All'Udinese Balbo si mette finalmente in luce: un piede educato, come lui, senza nessuna caratteristica impressionante o da fenomeno, ma un vero e proprio operaio, un jolly d'attacco che riusciva a fare tutto, e a farlo molto bene. Chi parla di Balbo ricorda la sua abilità del posizionamento, nello smarcarsi costantemente, ma essere cresciuto da centrocampista gli ha donato anche una conduzione di palla che aiutava spesso le sue squadre, in un campionato come quello italiano dove si vedevano ancora moltissime squadre catenacciare. Non era velocissimo, non è sempre stato un rapace d'area, neanche un diez classico argentino: Balbo faceva il suo lavoro, segnare e muovere in avanti la squadra, e lo faceva con ottimi risultati. Il suo esordio è senza gol, perché un palo gliel'ha impedito. Un palo messo lì contro chi ama, come me, le coincidenze e i fili rossi che ingarbugliano il mondo, perché il suo primo gol in Serie A sarebbe potuto essere contro la Roma, la seconda squadra della sua vita. Segna 11 gol, ma l'Udinese retrocede in Serie B, evento che Balbo descrive come uno dei momenti più brutti della sua carriera. Ma non si scoraggia, rimane fedele alla maglia, e in due anni in cadetteria e mette a segno 33 gol (diventando anche capocannoniere), permettendo alla sua squadra di risalire in Serie A.
Al ritorno sul palco di Broadway, Balbo decide di esplodere definitivamente: 21 gol, al pari di un certo Roberto Baggio, sotto solo Beppe Signori. Arriva anche sopra al connazionale Batistuta, che lo aveva sostituito al Newell's Old Boys e al River Plate l'anno dopo. Le loro storie si intrecceranno in due altre occasioni, ma ancora è presto. La stagione eccezionale di Balbo convince il neo presidente della Roma, Franco Sensi, a spendere ben 18 miliardi per assicurarselo. È il primo grande acquisto della storica gestione Sensi a Roma, e i giornali ne parlano come di una scommessa rischiosa. Scommessa vinta, si potrà dire cinque anni dopo, quando Balbo dice addio (o arrivederci?) alla Roma dopo 167 presenze condite da 87 gol. Roma diventa la sua città, e i tifosi lo amano. Diventa anche capitano, il penultimo prima di Francesco Totti, che gli fornirà anche il primo assist della sua carriera. Dopo anni grandiosi a livello individuale, ma una bacheca vuota con la maglia giallorossa, Balbo decide di sposare il progetto del Parma, dove vincerà Coppa UEFA e Coppa Italia. Da quest'anno i suo gol diminuiscono sensibilmente, ma al Parma riesce comunque, con il suo lavoro di leader silenzioso, di gestione dell'attacco e delle transizioni, a dare un contributo alla straordinaria stagione dei ducali.
L'anno dopo arriva alla Fiorentina, dove non gioca tantissimo e segna sei gol, di cui solo tre in campionato. Gli altri li segna in Champions, a 34 anni, a squadre come Barcellona (doppietta) e Manchester United, in coppia proprio con il Batistuta che sembrava essere il suo strascico. Batigol a Firenze intanto era diventato un fuoriclasse assoluto, e le offerte non mancavano, ma fu proprio Balbo, con cui ormai c'era un rapporto d'amicizia, a convincerlo ad andare a Roma. Forse per premiarlo per questo lavoro da procuratore, forse per ringraziarlo degli anni passati, forse per l'amore che perdurava verso la squadra e la città, la Roma, insieme al 31enne Batistuta, riabbraccia anche il suo ex-bomber, Abel Balbo.
Le storie dei ritorni sono sempre strane, a volte finiscono benissimo, a volte sono storie dell'orrore, a volte non vale neanche la pena di raccontarle. Balbo giocherà 15 partite in due anni al suo ritorno, neanche un gol, un assist, una giocata decisiva, solo tre partite in campionato. Sembra una di quelle storie che, appunto, non vale la pena, che potremmo saltare dicendo questo: "Torna a Roma, ma le cose non vanno bene, e dopo due anni arriva il turno del Boca Juniors che lo riporta in patria, che gli permette di giocare finalmente con la sua squadra del cuore e di farsi perdonare per la breve militanza nell file del River Plate. Solo 45 minuti per lui, e un assist, in Copa Libertadores, e una carriera che si conclude silenziosamente, senza troppo scalpore, senza rumore, senza botti, senza applausi e senza rancori. Una carriera che si chiude educatamente, sul campo della Bombonera."
Però non è così. O meglio, è così, certo, ma il suo ritorno a Roma è segnato da qualcosa che vale molto di più di gol, assist, presenze. La stagione 2000-2001, la prima dopo le parentesi a Parma e a Firenze, la prima di Batistuta, Samuel, Emerson, è anche la stagione del terzo scudetto della storia della Roma, l'ultimo vinto da una squadra che non sia Juve, Inter o Milan. Quella stagione Balbo la vive in panchina, negli spogliatoi, la vive a Roma, di cui si innamora definitivamente, e in cui decide di andare a vivere appesi gli scarpini al chiodo, ma quello scudetto non è solo un regalo di Balbo ai tifosi, ma anche un regalo della Roma a Abel, che, di certo non per colpa sua, non era mai riuscito a vincere nulla con la lupa addosso.
È difficile che i gol di Balbo, o qualche sua giocata, rimangano impressi nella memoria di chi li ha visti. Era un giocatore silenzioso, corretto, ma anche furbo, che sapeva sfruttare ogni spazio o movimento per smarcarsi, che riusciva sempre ad aiutare la squadra, con o senza palla. I suoi gol sembrano quasi tutti "semplici". Ma quando segni 176 gol in carriera, nessuno è semplice. Forse a renderli semplici era la sua visione, era quel movimento geniale che scatena una reazione a catena che gli ha permesso infine di arrivare davanti alla porta, vuota, sul secondo palo, come suo solito, e metterla in rete. A Udine lo chiamavano "El Killer", che può avere un'accezione aggressiva, forte, dirompente, ma credo che in questo caso ci dovremmo rivolgere verso quella concezione di assassino come uomo nell'ombra, che compie il suo lavoro e non lascia tracce, che di nascosto prepara il piano, e poi segna, segna, segna.
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