Andres Iniesta: quando le scuse valgono ben più di un Pallone d'Oro

Pallone d'Oro 2010
Pallone d'Oro 2010 / Michael Steele/Getty Images
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Quanti calciatori, anche una volta finita la loro carriera e dunque presi da altre questioni, si sveglieranno nel cuore della notte presi dal ricordo di quel gol divorato a porta vuota, di quel passaggio azzardato che fece partire un contropiede letale? Molti, forse tutti. L'errore è parte del gioco, il rovescio della medaglia naturale della giocata riuscita, e sicuramente i più sensibili sentiranno l'eco di ogni sbaglio più forte e prolungato dell'eco di ogni azione funambolica. E chissà che, restando nel calcio ma uscendo da chi lo gioca, anche France Football non sia stata presa da quella stessa morsa dolorosa, quella del rimpianto, arrivando ad ammettere esplicitamente di "aver sbagliato". E quante volte era successo in precedenza che una simile presa di coscienza venisse esternata, resa pubblica? Mai.

Andres Iniesta
Spagna sul tetto del mondo / Jamie McDonald/Getty Images

I premi dati male, gli artisti sottovalutati e i geni incompresi da sempre danno colore a ogni questione, tra miti da riscoprire e il piacere oscuro di sottolineare il valore che altri non hanno saputo comprendere, ma quasi mai (poi) arriva il timbro di una parola così pesante: "scusa". Senza contare poi che, nel caso del Pallone d'Oro 2010, di nascosto c'era in realtà ben poco: Andres Iniesta era il direttore d'orchestra già da anni di un Barcellona che giocava a memoria, una squadra divenuta egemonica in Europa, fulcro di quella Spagna che arrivò poi a conquistare il Mondiale in Sudafrica. Iniesta e Xavi rappresentavano il motore di quei Blaugrana, colonne portanti insieme a Puyol di un club capace di coltivare talento e di trascinarlo al limite estremo, fin sul tetto del mondo grazie alla Roja di Del Bosque. E il Mondiale vinto nel 2010 sembrava il timbro definitivo su quel percorso, con Iniesta come rappresentante non soltanto ideale ma più che mai concreto: il gol in finale contro l'Olanda, ai supplementari, lasciò già immaginare come una formalità il passaggio di mano del Pallone d'Oro, da Messi a Iniesta.

Ogni riconoscimento, però, è fatto di un vincente di infiniti insoddisfatti, soprattutto in quell'anno così ricco di storie sportive degne di essere celebrate: al di là di Iniesta, del resto, si ricorda lo scalpore per l'esclusione di Milito prima e di Sneijder poi (l'olandese arrivò infine quarto) dalla lista finale dei possibili vincitori del premio istituito da France Football. Un'Inter sul tetto d'Europa senza solisti riconosciuti, una Spagna sul tetto del mondo per la prima volta passata sotto silenzio. Certo non è semplice biasimare del tutto chi si riservò il diritto di premiare un giocatore, allora ventitreenne, così alieno ed accecante: Messi, nella stagione 2009/10, mise a segno 47 reti complessive (migliorando il proprio record della stagione precedente). Numeri che, presi in sé, distraggono in modo piuttosto naturale: quel che sorprende, col beneficio del tempo passato che ci viene in soccorso, è la presa di coscienza maturata da France Football stessa che, nel 2018, si tolse il cappello (con qualche anno di ritardo) di fronte al genio di Iniesta, ne riconobbe il valore assoluto e arrivò a definire come errore l'assenza del suo nome accanto al Pallone d'Oro del 2010.

Andres Iniesta
Iniesta / Etsuo Hara/Getty Images

Certo le scuse da porre sarebbero più numerose, le perle rimaste lì e non raccolte sono altrettante, ma simbolicamente quelle scuse ebbero e hanno ancora un peso: il Pallone d'Oro per sua natura si presta alle distrazioni e agli abbagli, quelli dati dai numeri e dalle statistiche, ma la grandezza non passa necessariamente dalle copertine o da un elenco di record macinati. Passa dall'essere interprete e protagonista di un intero movimento, ingranaggio cardine di un modo di giocare divenuto e rimasto a lungo come un faro, perseguito e persino scimmiottato indegnamente in ogni latitudine calcistica. Quel che fa epoca passa anche dall'umiltà di un ragazzo minuto e taciturno, dal suo ingresso in punta di piedi nel mondo fatato della Masia, con l'oro che forse brilla fin troppo per essere in fondo un premio significativo e coerente. Nel 2010 avrebbero probabilmente dovuto pensare all'istituzione di un premio differente, inventarne uno per una categoria diversa un po' come negli Oscar, comprendere che esiste una differenza sostanziale tra il solista più funambolico e il direttore d'orchestra, tra chi suona e chi (silenziosamente) decide la melodia da fargli suonare.

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