Firenze non salutò Rui Costa, disse addio a un'idea di Fiorentina: piansero tutti
C'è un addio che più di altri ha tracciato un solco nel calcio, permettendo di individuare un prima e un dopo ben definiti, non è un caso se qualche lacrima è scesa anche sulle guance di chi non ne condivideva i colori e la fede: l'addio al calcio di Totti, nel maggio del 2017, ha unito un popolo e lo ha commosso, strappandogli dal cuore tutto un pezzo di vita vissuta, e non è un'esagerazione pensare a tutta una parte di Roma che non aveva conosciuto la propria squadra senza Totti. Ci sono poi addii che non entrano nella leggenda, se non per frazioni di mondo, ma che al contempo pesano come un macigno della storia di un club: quel che successe il 13 luglio 2001 allo stadio Artemio Franchi rientra di diritto in questo genere di eventi, lasciando un marchio sulla Firenze del calcio e su quella Fiorentina, squadra da sogno fino a pochi anni prima finita sull'orlo di una decadenza inesorabile.
Dopo sette anni, quel giorno, Manuel Rui Costa si congedò da Firenze: non lo fece per lasciare il calcio, aveva del resto 29 anni e tante giocate da regalare ancora, ma per raggiungere il Milan per 85 miliardi di lire e contribuire a rimpolpare le casse di un club a rischio fallimento, poi concretizzato l'anno successivo. Già in sé la presenza di diecimila tifosi in uno stadio per un giocatore pronto a raggiungere un'altra squadra, nello stesso campionato, appare un'eccezione: è evidente che quel momento vada spiegato, senza avere altrimenti un senso.
Firenze poi ha il vizio di riempire gli stadi quando nessuno ci gioca dentro, talvolta anche a sproposito. Ma con Rui Costa quell'afflusso incontrollato aveva una ragione profonda e di sicuro valida, così valida che si tradusse anche nelle lacrime di tanti: da un lato quelle di Rui, dall'altro quelle del popolo viola. Lacrime senz'altro diverse ma di sacrifico, quelle di chi pensa di rinunciare a qualcosa di importante per donarlo a una causa maggiore: un pensiero illusorio, poi, anche se nessuno in quella afosa giornata di luglio lo sapeva ancora. Rui Costa piangeva perché, dopo sette anni, non era più un ospite in quello stadio e in quella città: era l'elegantissimo padrone di casa, era anzi l'unico in grado di accendere la luce in campo e di incontrare così, naturalmente, la vocazione fiorentina per il bello. Ci vollero meno di sette anni per capirlo, anzi di fatto bastarono i primi passi in città dopo l'arrivo da Lisbona, per creare un legame che avrebbe poi spiegato quelle lacrime.
Il punto di vista del portoghese, dunque, era quello del figlio prediletto che lasciava casa per spiccare il volo, quasi come se il cambiamento vero fosse Firenze-Milano e non Lisbona-Firenze del '94. Il punto di vista di Firenze era differente: la città si era senz'altro presa a cuore quel ragazzo, anche al di là della sua eleganza sul campo e dei suoi assist, ma in quel momento il Franchi stava salutando la personificazione di un'idea di Fiorentina, si stava rendendo conto che i sogni di gloria stavano scivolando dalle mani e che, per riassaporare qualcosa di così bello, sarebbe servita una lunga attesa. In quella giornata i tifosi viola non vedevano solo un portoghese con la sciarpa, che correva con gli occhi gonfi e salutava, vedevano invece correre in campo la Fiorentina di Cecchi Gori, vedevano Batistuta, Toldo, Edmundo, il Trap e Malesani, le sette sorelle, e infatti non riuscivano a trattenere la commozione.
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