Autorevolezza o autoritarismo: l'Ibrahimovic istrione non serve al Milan
Il Milan di questi tempi è divenuto il bersaglio ideale, seguendo l'eco potente dei fischi di San Siro, di un tiro a segno mediatico che non risparmia sostanzialmente nessuno degli attori che popolano le vicende rossonere. Il successo netto sul Venezia ha rappresentato una tiepida pacca sulla spalla, una magra consolazione, per chi aspettava al varco i rossoneri e il Liverpool - in tal senso - aveva già sulla carta il profilo del carnefice perfetto. Se una sconfitta coi Reds, in sé, può essere anche nell'ordine delle cose - per una mera valutazione tecnica - ciò che è accaduto a San Siro e che ora risuona, anche metaforicamente, somiglia a tutti gli effetti ad un processo e vede sul banco degli imputati sia Paulo Fonseca che, a salire, la dirigenza rossonera, fino ad arrivare alla proprietà.
Si può anche intendere la figura di Zlatan Ibrahimovic come una sorta di rappresentazione della stessa proprietà, come un alter ego di Gerry Cardinale e lo stesso Ibra (nel suo stile) ci aiuta in tal senso: "Il ruolo è semplice, comando io e sono io il boss" ha affermato a Sky. Il tema dello stile si tramuta qui in sostanza: se tanti palcoscenici occupati dallo svedese in passato, con tanto di comparsate televisive, potevano nutrirsi semplicemente del suo ego e della sua indole di incurabile istrione, la situazione adesso ha cambiato i contorni e ha rotto l'idillio. L'aura che a lungo ha circondato Ibrahimovic ha funzionato alla perfezione finché Ibra rappresentava se stesso, sceglieva una narrazione legittima e coerente col proprio vissuto, ma ha finito per generare un corto circuito quando lo svedese è divenuto l'ingranaggio di qualcosa di superiore.
Per Ibrahimovic è una contraddizione in termini l'idea stessa di essere assoggettato ad altro, a entità più rilevanti: lo svedese parla come se il pubblico attendesse solo le sue parole, pensa come se il microfono fosse esclusivamente al suo servizio, come se questo genere di racconto bastasse. Finché, da calciatore o da ex, rappresentava se stesso il gioco funzionava a meraviglia, era parte stessa del brand e della sua forza, ma quando si tratta di dar conto di scelte, decisioni e situazioni pratiche qualcosa s'inceppa: le doti diplomatiche non sono quelle del dirigente navigato, la strategia dell'"aggressività verbale" (il riferimento ai gatti in fuga, rivendicare il ruolo di boss) finisce per tradire fragilità anziché potenza, con tutto ciò che ne consegue.
L'atteggiamento di Ibrahimovic di fronte ai microfoni, anche di fronte a un Boban perplesso sui confini del ruolo dello svedese, appare evidentemente spavaldo e persino autoritario negli intenti, si tratta però di una modalità legittimata a suo tempo da Cardinale che - descrivendo il ruolo di Ibra - affermò: "Ha l’autorità di essere la mia voce parlando con staff, giocatori e chiunque". Ibra è il boss, insomma, o comunque ne è in tutto e per tutto la voce. L'autorevolezza costruita sul campo però, quella che rendeva Ibra showman totalmente coerente e digeribile, finisce per tramutarsi in qualcosa di più bizzoso e stridente, tanto da condurre immediatamente il tifoso rossonero a immaginare l'atteggiamento di un Paolo Maldini in luogo dell'attuale Senior Advisor. La piazza chiede ruoli che siano definiti, una responsabilizzazione lineare delle parti in causa in ogni processo decisionale, un profilo che sia in linea con la storia rossonera nella sostanza e non nei proclami: l'Ibra istrione, tanto celebrato in passato e capace di diventare personaggio oltre che atleta, racconta oggi una storia che - nel mondo rossonero - in pochi vogliono sentire.