Calcio e politica, due facce di una medaglia: tra veleni e partecipazione

Elseid Hysaj
Elseid Hysaj / Marco Rosi - SS Lazio/Getty Images
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Il rapporto tra calcio e politica potrebbe intuitivamente riassumersi in modo efficace, come sintesi perfetta, in un "Bella Ciao" cantato in un ritiro con la testa proiettata su La Casa di Carta e una reazione fortemente politicizzata da parte di una frangia della tifoseria della Lazio. Una sorta di fraintendimento di partenza, linguaggi diversi che finiscono per collidere e per incrociarsi al di là delle intenzioni e dei significati delle parole, dei simboli. Pezzi di grande storia che si confondono con istanze di pancia, momenti cardine nella costruzione di un Paese che si intrecciano con adesivi, bandiere e striscioni scritti in fretta e furia, per questioni di orgoglio o per dare prove di forza.

La storia del pallone è disseminata di corti circuiti, di incidenti affini a quello che ha visto protagonista Hysaj, anche partendo da un'ostentazione volontaria di ideologie o pensieri politici: dal pugno chiuso di Paolo Sollier, calciatore negli anni '70 sì ma anche militante in Avanguardia operaia, alla maglia di Cristiano Lucarelli con Che Guevara mostrata in Under 21, dal saluto romano di Di Canio ai busti di Mussolini "regalati da uno zio" e collezionati a suo tempo da Alberto Aquilani. Si va dunque dalla effettiva partecipazione politica, esperienza coltivata fuori dal campo da gioco a livello personale, fino all'ostentazione sul campo di simboli o atteggiamenti con forte connotazione ideologica. Quel che appare evidente e inevitabile, al di là dell'opportunità o meno di dati gesti, è che il calderone mediatico del calcio non abbia le armi per assorbire e filtrare correttamente dati rimandi, finendo per far convogliare tutto nella rissa verbale, negli schieramenti a priori e, certo, non nel dialogo o nella comprensione dei fenomeni.

Paolo Di Canio
Paolo Di Canio / ANDREAS SOLARO/Getty Images

"Dov'è scritto che un calciatore non debba avere idee?"

Paolo Sollier

E, del resto, si è colpevolmente chiesto a lungo ai calciatori di restare macchine avulse da qualsiasi istanza sociale o politica, invitandoli a tacere su questioni che "non li riguardano" o che sono da ritenere più grandi di loro. Un presupposto che richiederebbe al calciatore atleta di rinnegare il calciatore uomo, scindendo di netto le due parti: la professionalità è una questione necessaria, così come il rispetto delle regole, ma al contempo resta valido il monito di Sollier: "Dov'è scritto che un calciatore non debba avere idee?". Ecco dunque che potremmo scovare connotati diversi per la partecipazione politica associata al calcio in modo anche costruttivo: il palcoscenico ambito e luccicante del pallone ad alti livelli, in sostanza, può anche fornire al calciatore un piano su cui mostrarsi come individuo, con la propria testa pensante e coi propri principi di riferimento, impossibili da eclissare.

Harry Kane, Mikkel Damsgaard
Harry Kane, Black Lives Matter / Laurence Griffiths/Getty Images

Dalla politica come bandiera e come ostentazione di ideologia, dunque, si può approdare alla partecipazione, alle cause da far proprie: Neuer con la sua fascia arcobaleno o i giocatori che si inginocchiano o che scelgono di non farlo in nome del Black Lives Matter, a livello puramente simbolico, ma anche la possibilità (da non rifuggire) di esprimersi liberamente sui social o nel rapporto con la stampa, senza il pudore o l'esigenza di dover essere semplici manichini svuotati di pensieri o valori. Il tutto però, necessariamente, tenendo fermo il confine tra vuota e rumorosa propaganda e voglia sacrosanta di far sentire la propria voce.


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