Il campionato dei Campioni o delle contraddizioni? I due volti della Serie A 2021/22
Un curioso filo conduttore nel percorso che avvicina all'inizio della Serie A 2021/22, battezzata alle 18.30 di oggi da Inter-Genoa e da Verona-Sassuolo, è il ricorso ripetuto e tutt'altro che celato alla posizione privilegiata che l'Italia calcistica si sarebbe assicurata grazie al successo ottenuto a Euro 2020, vero e proprio ribaltamento di prospettive per un movimento, quello azzurro, recentemente alle prese con una profonda ristrutturazione, con le macerie alle spalle. Il riferimento diretto al "campionato dei Campioni", in linea di principio, potrebbe offrire un panorama florido, ricco economicamente e tecnicamente, pronto a decollare nelle coppe europee grazie a un mercato fatto di colpi in entrata in grado di fare la differenza.
Eppure accade qualcosa di profondamente diverso e, a tutti gli effetti, di contraddittorio: la forza dell'Italia di Mancini, del resto, non può specchiarsi in un contesto del tutto differente, laddove si volesse considerare la ricostruzione azzurra basata su fondamenta solide costruite nel tempo, infatti, si riscontrerebbe subito dall'altra parte una Serie A vittima delle circostanze, chiamata a parare i colpi della pandemia, a vivere un mercato forzatamente sottotono e a leccarsi le ferite. Per certi versi, volendo per forza percorrere l'instabile percorso dei paragoni, il panorama del calcio italiano risulta avere un profilo più affine a quello dell'Italia bisognosa del rilancio, quella post 2018, che non a quello scanzonato e vittorioso degli Azzurri che arrivano a conquistare Wembley. Il biglietto da visita parla di campioni, dunque, ma al di là della prima immagine esiste un universo fatto di contraddizioni, alcune lampanti e altre più nascoste e sottili.
Non è più solo calcio
Anche un banale ordine di classifica, ma si va ben oltre a questo, porterebbe a citare l'Inter come emblematica in tal senso: il panorama è quello delle ritrovate certezze, ritrovate con sforzo e fatica, che nell'arco di pochi mesi (non senza qualche scricchiolio precedente) hanno iniziato a sgretolarsi, togliendo le principali colonne portanti all'edificio nerazzurro. Dal problema di organizzare una festa Scudetto in epoca Covid, dunque, si è passati a questioni ben diverse: i proverbiali nodi sono venuti al pettine e il conto è apparso salato, dando vita alla contraddizione più macroscopica, quella di una squadra che vince e si cambia, per forza di cose, secondo logiche non legate necessariamente all'area sportiva, alle indicazioni degli uomini mercato e del nuovo tecnico. Un piano più dirompente si è fatto strada, qualcosa che risiede più in alto, e non si tratta qui di discutere il paragone Dumfries-Hakimi o Dzeko-Lukaku ma di sorprendersi per i presupposti di questa "rivoluzione forzata" in un nome della crisi vissuta nella stanza dei bottoni.
Allenatori al centro
Non mancano del resto altri aspetti contraddittori rispetto alla retorica della "Serie A dei campioni", aspetti connessi evidentemente alla situazione di casa Inter: non è stato un mercato estivo fatto di colpi in entrata, basi pensare che la stessa Inter si è mossa meramente nell'ottica di sostituire (Calhanoglu per Eriksen, Dumfries per Hakimi, Dzeko per Lukaku) e che la Juventus ha incentrato la campagna acquisti in modo evidente sul solo acquisto di Manuel Locatelli, senza spazio per acquisti ad effetto o ribaltoni tecnici. Un mercato in cui i club hanno dovuto fare di necessità virtù, basando il rinnovamento più sull'arrivo di nuovi tecnici che non su campagne acquisti movimentate. Gli esempio di Napoli e Fiorentina sono emblematici, con Spalletti e Italiano che avranno a disposizione rose affini (se non identiche) a quelle dello scorso anno, vestendo dunque i panni poco comodi di accentratori anche per quanto riguarda l'entusiasmo sopito delle due piazze. Anche nella Capitale tanto dipenderà da Mourinho e da Sarri, pronti a portare principi di gioco diversi dal passato alla Roma e alla Lazio, senza però accompagnare veri e propri ribaltamenti di prospettiva, vere rivoluzioni interne alla rosa.
Sorprese e paradossi
In casa Juventus la situazione più vicina al paradosso è quella legata a Cristiano Ronaldo: questa non è un'estate banale a livello europeo, l'addio di Messi al Barcellona lo dice chiaramente, ed è logico che chi si contende con La Pulga il titolo di miglior giocatore al mondo finisca in automatico sotto ai riflettori, con Manchester City, Real Madrid e lo stesso PSG come ingombranti compagni di prime pagine. Quel che sorprende è la posizione a metà del guado tenuta dal portoghese: CR7 non ha mai strizzato l'occhio a una pista in particolare, non ha dunque lasciato intendere un addio come imminente, ma anche nel recente sfogo su Instagram non ha citato la Juve in modo diretto, dicendosi "concentrato sulle prossime sfide", senza in sostanza spiegare di che colore saranno queste ultime.
Tra le tante contraddizioni, tra le cose che possono sembrare in un modo salvo poi ribaltarsi quando le osservi meglio, potremmo citare anche un Milan pronto a investire con forza sul mercato ma, curiosamente, più per confermare risorse già presenti in rosa (Tomori, Tonali, Brahim Diaz) che non per sancire un salto di qualità attraverso costosi colpi in entrata. La Roma ha speso, senz'altro, ma il mercato giallorosso non è stato quello che si poteva prospettare a priori con l'arrivo di José Mourinho: ecco un'altra contraddizione, almeno apparente, quella cioè tra l'arrivo dello Special One e un mercato in entrata all'insegna di profili ancora in rampa di lancio (Vina, Shomurodov, Abraham) anziché dell'usato sicuro (Rui Patricio l'eccezione in tal senso). Il mancato arrivo di Xhaka e l'addio di Dzeko, insomma, hanno segnato un solco tra quel che ci saremmo immaginati e quel che invece è stato in effetti.
Resta infine da capire se l'apparente e profonda distanza tra la retorica dei Campioni e la sostanza della crisi riuscirà a dar vita a qualcosa di altrettanto sorprendente; se dal profilo basso in partenza, cioè, si potranno invece vivere scenari più luminosi: questo sì, in fondo, potrebbe essere l'unico vero tratto in comune con l'esperienza azzurra agli Europei.