Colpo da 90: Gabriel Batistuta dal Boca Juniors alla Fiorentina
Quando la memoria arriva a cristallizzarsi, a farsi concreta ed eterna, diventa persino innaturale abituarsi all'idea che lo stato delle cose sia stato diverso in passato: proviamo a immaginare una Napoli senza Maradona, ad esempio, situazioni che a posteriori appaiono fantascientifiche o irreali ma che - nei fatti - sono state vere. Pensiamo dunque a una statua, a immagini ancora vive nella mente e nei pensieri, a occhi lucidi per ogni ritorno in città.
Un Re in sostanza, il Re Leone, qualcuno che conosce soltanto il calore di un applauso, di uno sguardo ammirato. Anche un soprannome del resto parla e racconta, ha in sé tanto: Re Leone, dunque, in segno di forza e di fierezza (ricalcando il Marzocco, simbolo di Firenze) oppure Batigol, portando nel nome una cifra distintiva chiara, quella del pallone che s'infila in rete. Soprannomi che si fanno cori, che entrano nell'immaginario collettivo e sembrano abitarci da sempre. E allora, a questo punto, chi è il Dertycia coi capelli?
Colpo da 90 è un format ideato e realizzato dal team di 90min Italia per ripercorrere la storia e gli aneddoti legati ai grandi acquisti della Serie A degli anni '90. Non saranno obbligatoriamente le operazioni di mercato più importanti o più dispendiose, ma quelle che hanno lasciato un segno nel nostro campionato.
Nessun colpo di fulmine
Nessun colpo di fulmine, no, e il discorso vale osservandola da entrambi i lati, iniziando da quello del giocatore. Gabriel Batistuta arrivò a Firenze in compagnia di Irina, erano già sposati ma entrambi giovanissimi - poco più che ventenni - e la prima impressione fu quella di un potente spaesamento: "Dove siamo capitati?" , iniziò a chiedersi il centravanti argentino di fronte al profilo del capoluogo toscano, spesso associato a turisti incantati ma, in questo caso, connesso fatalmente al distacco dalle proprie origini, all'approdo in una realtà così diversa, così lontana da Buenos Aires.
Il tempo di carburare, di rendere familiare ciò che sulle prime pareva freddo, di trovare una propria casa: l'incontro col parrucchiere Sarino, divenuto poi appuntamento fisso della vita fiorentina di Batistuta ben al di là della chioma da sistemare, ma anche un graduale processo di integrazione nelle dinamiche e nello spirito di quella sua nuova città (ancora lontana da vederlo come idolo, simbolo da rendere eterno).
In una Fiorentina come quella di Radice, lontana in quel momento da ambizioni nobili, c'era da superare la concorrenza di Branca e Borgonovo e c'era soprattutto da vincere un iniziale scetticismo della piazza, con un titolo di capocannoniere in Copa America come timbro di garanzia che non si rivelava, però, sufficiente per scaldare la gente.
Il primo lavoro da fare non era però sul campo: si trattava di allacciare dei fili a livello umano, di tessere rapporti duraturi che non si limitassero alla convenienza di un momento, che non scaturissero dal bagliore del successo. Rapporti nati nel buio e in grado, proprio per questo, di sopportare in futuro le luci più abbaglianti, di porre un muro netto tra i mille intrecci ruffiani di convenienza e ciò che, invece, avrebbe resistito nel tempo (prima e dopo la gloria).
Le ragioni di Firenze
Viene semplice immaginarla, Firenze, con aria poco convinta e con lo sguardo perplesso osservare un ragazzone argentino così diverso - anche a pelle - da quei profili che in passato (recente o remoto) avevano fatto innamorare il capoluogo toscano, ne avevano acuito e deliziato il senso estetico, coniugandolo al pallone. Pensiamo a una città viziata dalle serpentine di Chiarugi tra gli anni '60 e '70 ma, in tempi più vicini a quelli dell'arrivo di Batistuta, ci rendiamo conto di quanto spazio reclamasse il bello se applicato al pallone.
Potremmo scomodare del resto Antognoni, l'eleganza e l'intelligenza portata in campo "guardando le stelle", ma anche riaprendo una ferita allora fresca potremmo pensare semplicemente a Baggio, a quel pupillo che Firenze adottò e di cui si sentì poi privata quasi in modo innaturale, violento. Un altro esempio, insomma, di estro e talento con la maglia viola addosso e col Franchi come palco.
Amori dal profilo diverso, infatuazioni prima e legami poi caratterizzati però da tutt'altro pedigree: i gol di Batistuta, quelli segnati in Sudamerica, non bastavano insomma - da soli - a scatenare una scintilla, ad accendere l'entusiasmo. Al contempo anche l'investimento fatto da Cecchi Gori, un vero e proprio asse col Boca Juniors che portò all'esborso complessivo di 18 miliardi di lire, non poteva apparire (a priori) come un timbro sufficiente per rassicurare sull'opportunità del colpo, sulla lungimiranza della mossa di mercato.
L'affare che nell'agosto del 1991 vide Batistuta arrivare in viola, infatti, si legava a un discorso più ad ampio raggio con gli Xeneizes e al contemporaneo passaggio in viola di Diego Latorre e di Antonio Mohamed. Avendo già in rosa Mazinho e Dunga, per paletti regolamentari relativi al tesseramento stranieri, i viola potevano tenere solo uno dei tre argentini e girarono dunque Latorre e Mohamed al Boca in prestito, col primo che arrivò successivamente a Firenze e si rivelò una meteora (2 presenze nel 1992/93).
C'era poi il "fantasma" di Dertycia, altra meteora argentina - un altro centravanti - che visse a Firenze una stagione complessa (1989/90), con un grave infortunio al ginocchio e con uno stress insostenibile, tradottosi poi nella perdita totale dei capelli come segno più palese, rimasto appicciato nell'immaginario collettivo come metafora di caduta di un potenziale campione, come simbolo di disastro sportivo.
La porta del cuore
Gli ingredienti di base, in sostanza, potevano aprire la strada all'ennesimo flop di mercato, alle attese pronte ad essere disilluse, al tonfo in luogo del trionfo. Da un lato una città viziata dal talento, dall'altro un investimento importante che richiedeva di essere ripagato e, sullo sfondo, un ambientamento in città tutt'altro che automatico.
Eppure, pur non conoscendo Batistuta quelle pennellate e quella vena innata da artista del pallone, essendosi peraltro avvicinato tardi al calcio (partendo dal basket), il potente centravanti di Avellaneda (Batman, lo chiamavano allora in Argentina) poteva farsi forte di doti diverse, dell'abnegazione e dell'umiltà di chi sa di poter passare soltanto dal duro lavoro, dalle ore trascorse ai campini, di chi conta sugli occhi della tigre anziché sui leggeri colpi di fioretto.
Capire come si possa passare da un inizio così incerto a una statua dedicata, dallo sguardo diffidente a quello innamorato, ci richiede di scovare un crocevia, un prima o un dopo. Il punto di svolta di una sceneggiatura perfetta e la sola strada per irrompere, in una serata, nel cuore di una città: superare il bisogno di capirsi iniziando ancor prima ad amarsi.
Come? Con un gol segnato alla Juventus, ai bianconeri di Trapattoni e di Baggio, il 26 gennaio del 1992. Prima di quella serata i numeri non erano stati dalla sua parte, 16 presenze e 3 gol come bilancio del girone di andata: la titolarità, di fatto mai venuta meno, non trovò insomma un corrispettivo di reti in linea con le attese.
Appena sette minuti per cambiare il corso delle cose, dunque: un cross di Carobbi al volo, Batistuta si fa trovare pronto sul filo del fuorigioco e, di testa, supera Tacconi, lanciandosi poi in una corsa, un'esplosione di gioia, sotto la Fiesole. Il gol di Branca nel finale completò l'opera, fissò quel 2-0 sulla Juve, ma la corsa di Batistuta sotto la Fiesole aveva racchiuso in sé (senza che si potesse davvero capire, lì per lì) il senso di una stagione altrimenti priva di picchi, povera di brividi. Da quel colpo di testa in poi, da quell'abbraccio, niente sarebbe stato più lo stesso.
La cura del tempo
La dedizione assoluta al lavoro e una serata magica cambiarono il corso delle cose, insomma, tramutarono un potenziale flop in un vero colpo da novanta: non soltanto un prolifico bomber ma uno di quei giocatori - se ne contano ben pochi nella storia di ogni club - in grado di spostare lo status stesso di una società e di un campionato, un acquisto tecnicamente formidabile (i numeri lo avrebbero poi raccontato, a suon di record) ma dotato al contempo di un indotto ulteriore, fatto di prestigio internazionale, di tifosi pronti ad accorgersi della stessa esistenza di un club, pur vivendo il calcio dall'altra parte del mondo, in tutt'altre latitudini calcistiche rispetto a quelle viola.
L'acquisto di Gabriel Batistuta da parte della Fiorentina tracciò insomma la strada per la crescita del club viola fino allo scenario europeo più importante, fece da traino per l'arrivo di altri campioni e per un aumento di notorietà e popolarità altrimenti impraticabile per il club gigliato, fuori dai confini italiani e destinato - soprattutto - ad avere una eco pressoché illimitata nel tempo, una eco tutt'ora riscontrabile e persino più impressionante di tutti i record macinati dal Re Leone sul campo.