Colpo da 90: Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus
Un'era calcistica, così come ogni era della storia umana, trova un suo segno d'inizio - un suo crocevia - in un evento che più di altri ha saputo spostare equilibri, variare un paradigma, in un fattore scatenante che permetta, a conti fatti e soprattutto col conforto degli anni trascorsi, di individuare un prima e un dopo.
Sappiamo dunque che le rivoluzioni in ambito produttivo e industriale portano alla riorganizzazione di consuetudini e regole date ormai per scontate, sappiamo che mediaticamente esistono momenti che segnano la storia e in essa si imprimono. Sappiamo però, ancor di più, che il calcio non fa da eccezione a una simile regola e che, a sua volta, offre una vasta panoramica di momenti topici, di crocevia da consegnare alla storia. Di occasioni che, oggi, ci permettono davvero di distinguere ciò che è venuto prima da ciò che verrà poi, facendo epoca.
Colpo da 90 è un format ideato e realizzato dal team di 90min Italia per ripercorrere la storia e gli aneddoti legati ai grandi acquisti della Serie A degli anni '90. Non saranno obbligatoriamente le operazioni di mercato più importanti o più dispendiose, ma quelle che hanno lasciato un segno nel nostro campionato.
Tutto cambia
Il trasferimento di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus, nel maggio del 1990, sa essere paradigmatico da più punti di vista: sa entrare nelle pieghe di una rivalità sportiva, ci racconta la rabbia di un tradimento così come la possibilità di redenzione, apre la porta agli anni '90 del pallone , a una nuova era del calciomercato e della percezione mediatica di un "caso".
Ci permette, a margine, di realizzare ancor di più quanto Roberto Baggio sia riuscito a restare a posteriori campione di tutti pur avendo attraversato la tempesta del caso mediatico, pur essendo divenuto a più riprese l'oggetto del contendere tra intere città oppure all'interno di dualismi, nel confronto/scontro con gli allenatori più dogmatici.
La galleria dei "colpi da 90", dei trasferimenti che hanno segnato un decennio in Serie A, comprende poi uno spazio tutto speciale riservato ai procuratori, a figure senz'altro controverse ma al contempo decisive per indirizzare una carriera, per capire se in un dato momento sia più opportuno proseguire insieme o separarsi per spiccare il volo: altro fattore, questo, che rende emblematico quanto accaduto nel '90 sull'asse Firenze-Torino.
Il ruolo del procuratore, del resto, rappresenta una delle possibili chiavi di lettura per comprendere lo spazio sempre più dilatato e visibile tra una visione romantica del calcio e un approccio più pragmatico, via via più distante dall'occhio del tifoso, dalle sue attese più ingenue. Un abisso con cui, del resto, il tifo non è mai venuto del tutto a patti: rimane tutt'ora viva e forte l'impressione di due lingue diverse. La lingua di chi, in curva, cerca un pupillo a cui votarsi e quella di una realtà parallela in cui, nello stesso momento, si traccia il percorso di una carriera di successo.
Amore e contraddizioni
Contraddizioni e conflitti (interiori come pure esterni) fanno da filo conduttore, nella storia dell'addio di Baggio alla Fiorentina, contraddizioni che del resto - nel racconto successivo - sono state attribuite in forma di colpa, di peccato originale, anche allo stesso Divin Codino: il Corriere della Sera, nel dicembre del 1992, ripercorse ad esempio tutto ciò che Baggio disse senza poi rispettarlo, una lista di frasi di cui il giovane fuoriclasse avrebbe dovuto insomma dar conto ai tifosi, di Fiorentina e Juventus, e ai media che ogni giorno lo citavano, lo rappresentavano.
In particolare spicca il passaggio che va da "L' ho ripetuto mille volte: io alla Juve non ci vado. Lo scriverò sui muri di casa"(15 marzo 1990) a "Fino a qualche tempo fa volevo restare a Firenze, ma oggi vedo troppa confusione. Ora è rimasta soltanto la speranza" (27 marzo 1990). Un solco apparentemente incolmabile in cui si racchiude il senso stesso di un trasferimento che ha fatto epoca, di quello psicodramma collettivo che rappresentò l'addio di Baggio a Firenze.
Un divario che parla di fiducia tradita: non quella di una piazza verso il suo giovane pupillo pronto a voltarsi dall'altra parte ma, al contrario, la fiducia riposta da quello stesso pupillo, Baggio, nella società, trovandosi poi diviso tra la riconoscenza verso il mondo viola e qualcosa di più grande di lui, che si muoveva silenziosamente e a sua insaputa. Nel racconto di Baggio, coincidente col racconto della città stessa, la storia è quella di un idillio spezzato: il desiderio di premiare chi lo aveva saputo aspettare e coccolare si scontrò con un cambio di proprietà in corso e col lavoro di un agente, Antonio Caliendo, proiettato logicamente sulla crescita del suo assisto, sulle prospettive di successo che alla Juve si sarebbero aperte.
Se le volontà fossero state coincidenti, allora come nella narrazione successiva, l'essenza stessa di quel clamore sarebbe apparsa fuori luogo: la scintilla nasce per l'appunto nella contraddizione, nel conflitto che muove la storia. Lealtà e cuore da una parte, accordi condotti in altre sedi dall'altra; scelte di vita da una parte, soluzioni ideali per la carriera dall'altro lato: forse non si tratta che di una rappresentazione romanzata degli eventi ma, del resto, è da questa stessa rappresentazione che si forma il ricordo profondo, quello popolare, di ciò che è stato.
Il seme della discordia
Ed è proprio qui, soprattutto, che si fonda l'epica di un tradimento, un nuovo seme di discordia tra il mondo della Fiorentina e quello della Juventus. Tappe e definizioni coerenti con l'idea di un mondo fatto di valori e di bellezza, quella di Baggio in campo con la maglia viola e del suo legame con Firenze sul solco di ciò che fu Antognoni fino a poco tempo prima, opposto a un nemico che - dall'alto - arriva e spazza via tutto, spremendo ogni residuo di romanticismo e di umanità, incurante persino delle intenzioni del campione (vittima dunque, seppur dipinto come mercenario).
E se spesso, a posteriori, il nome di Baggio viene accostato ad altri viola partiti per raggiungere la Vecchia Signora è chiaro come più dei punti in comune spicchino le differenze, i presupposti del tutto ribaltati: Vlahovic, Chiesa e Bernardeschi sono già consegnati alla storia come figli di un calcio in cui le scelte di carriera (con l'ombra dei procuratori) sono condotte in piena coerenza con le scelte di vita, senza dunque un conflitto che riempia la storia. La forza e la violenza di quanto accadde nell'estate del '90, così come della sua eco successiva, ha radici profonde nella natura contraddittoria della vita di un calciatore: troppo popolare per poter essere solo uomo, troppo uomo per poter scordare del tutto la dimensione dei legami, della riconoscenza.
Così si dipana poi la storia di un potenziale traditore, di un profilo condannato a sopportare l'etichetta di mercenario, che s'imprime invece nella memoria come campione di tutti: non nemico e non pupillo che indossa una sola maglia bensì uomo che, in quanto tale, si trova trasportato dai gorghi isterici di una carriera in ascesa e - al contempo - prova ad ascoltare il cuore, rendendo persino partecipe il mondo di questo suo logoramento (e in un'era ancora lontana dalla sovraesposizione patinata dei social).