Commisso e una doppia narrazione: l'abisso tra il Viola Park e la classifica
Difficilmente, nella recente storia viola, è apparso così dirompente e chiaro il distacco tra due diverse (e opposte) narrazioni dell'attualità gigliata: fotografie dai colori differenti, atmosfere diametralmente contrapposte che si trovano per assurdo a convivere. Da un lato i bagni di folla che si concede Rocco Commisso prima di ogni ingresso al Franchi, con tanto di foto e sorrisi di routine, l'accoglienza riservata allo stesso patron gigliato da un gruppo di tifosi in Autrogrill, incontrandosi per caso.
D'altro canto emerge un contraltare netto, rispetto a questo scenario, restituito dai fischi dedicati dal Franchi alla squadra dopo la sconfitta interna contro il Torino, culmine di un periodo tutt'altro che entusiasmante sul piano dei risultati come del gioco. Una distanza che stride, uno spazio profondo e difficile da colmare tra due diverse versioni della realtà viola: ripercorrere sommariamente alcune tappe della Fiorentina targata Commisso ci permette, per quanto possibile, di comprendere le radici di una simile spaccatura, di un racconto così ambivalente.
Il credito di partenza
Un aspetto cruciale per capire le ragioni di un distacco così netto tra i due diversi racconti (quello della società da un lato e dalla piazza e dai media dall'altro) si può ripescare direttamente dall'inizio della storia, dal 2019 e dal passaggio di mano dai Della Valle a Commisso. Una fase che seguiva, in modo diretto, l'espressione del malumore ormai maggioritario della realtà fiorentina rispetto agli uomini che dal 2002 gestivano il club. Malumori dovuti a un progetto che negli intenti avrebbe dovuto condurre i viola stabilmente tra le big ma che, nelle ultime stagioni prima della cessione, sembrava destinato a una tiepida assuefazione al rischio di "vivacchiare" che tanto spaventava la proprietà nei suoi primi anni.
Aver assaggiato scenari di gala, aver vissuto una virtuosa escalation dalla C all'Europa che conta, ha fatto sì che l'ambiente non reagisse più con entusiasmo ai piccoli traguardi e alle promesse più pragmatiche e razionali: c'era voglia di intraprendere una nuova strada, di ritrovare un entusiasmo quasi infantile che, negli anni, aveva lasciato spazio a logiche meno comprese dalla piazza (tra autofinanziamento, oculatezza e graduale distacco di Andrea Della Valle dalla gestione quotidiana del club).
Chi meglio di Commisso poteva, mediaticamente, incarnare una simile intenzione? Un imprenditore di successo che non dimentica le proprie origini, un uomo in grado di affermarsi oltreoceano che sentiva il richiamo della sua Italia e che cercava un modo per riannodare quel filo, quella storia personale. Un atteggiamento più viscerale e orientato al pubblico, un distacco palese rispetto al contegno degli ultimi anni di gestione Della Valle, che agli occhi di tanti arrivò come una ventata di aria fresca. Il tutto unito a un patrimonio importante, anche rispetto alle altre proprietà in Serie A, e a un biglietto da visita chiamato Franck Ribery.
Fraintendere Firenze
E proprio riaffacciarsi sul quel momento, sull'accoglienza riservata a Ribery e sul bagno di folla dovuto all'arrivo del fuoriclasse francese nel 2019, ci fa capire (fuori da ogni ambiguità) come l'anima pulsante di una città finisca per risvegliarsi in modo dirompente quando, retoricamente o sostanzialmente, si toccano le corde del sogno. Esiste cioè un nodo difficile da districare, una coperta troppo corta: da un lato i proclami e le immagini di grandezza, dall'altro le esigenze di bilancio e un vitale pragmatismo di fronte alle mille sfaccettature di una gestione societaria.
Commisso partì col piede giusto, agli occhi dei tifosi, sia a livello sostanziale (con la firma di Ribery) che sul fronte comunicativo, con una discontinuità palese da chi lo precedeva. Accanto alla forma, però, emergevano già temi di fondo che, all'esame dei fatti, reclamavano un loro spazio pur passando spesso inosservati: il tema delle infrastrutture e di una necessaria visione a medio/lungo termine apparteneva a quanto proposto da Commisso fin dall'inizio, pur con tutto un mondo di apparenze che distraevano, che raccontavano una storia diversa.
Il fraintendimento è sorto, insomma, considerando Firenze come una piazza in grado di attendere pazientemente la realizzazione di un percorso ad ampio raggio, con le infrastrutture come fulcro strategico, come una realtà capace di porre l'accento su qualcosa che non sia il richiamo del campo (un richiamo che, di fatto, chiede sempre il conto).
Il peso del campo
Le faccende di campo, quel che accade in partita e la sua mera traduzione in punti, lasciavano inizialmente un margine di manovra ampio: lo stesso Commisso ha spiegato, di fronte a chi chiedeva conto dei primi anni così difficili, di essere più che in linea con le nuove proprietà, rivendicando anzi di aver ottenuto risultati più soddisfacenti di molti omologhi al loro primo anno alla guida di un club. Argomentazioni dall'impatto piuttosto efficace, perlomeno agli occhi dei tifosi che - seguendo anche una retorica proprietà vs media - continuavano a riconoscersi in modo profondo con l'animo battagliero e vulcanico della nuova gestione.
Col passare delle stagioni, nel ben mezzo della quarta annata della gestione Commisso, diventa però chiaro come il peso di quelle argomentazioni inizi a vacillare di fronte alla prova del campo, di fronte a risultati che senz'altro ci raccontano di un ritorno in Europa (grazie a un settimo posto) ma che si accompagnano ad altre stagioni (2019/20, 2020/21) segnate dalle difficoltà rese plasticamente da un decimo e da un dodicesimo posto in classifica.
La stagione in corso appariva sulla carta come quella della necessaria conferma ed è evidente che la distanza dalla zona europea riporti in voga fasti passati d'insofferenza (con tanto di fischi tornati ad essere compatti e insistenti). Resiste dunque questa profonda ambiguità: da un lato un centro sportivo di prossima realizzazione - il Viola Park - che si pone come vero e proprio vanto della società, dall'altro risultati che sul campo non seguono lo stesso filo conduttore di ambizione e di ottimismo, dando vita a due narrazioni - appunto - diametralmente opposte.
Il problema non è cedere
Un altro aspetto chiave della frustrazione che monta, all'interno di una parte della tifoseria e della piazza in senso più ampio, riguarda un mercato che ha spesso visto la Fiorentina come "vittima sacrificale" di cause più grandi di lei. La Juventus è riuscita a strappare ai viola Chiesa e Vlahovic, la rottura con Torreira ha condotto all'addio di un nuovo beniamino, le voci su Nico Gonzalez e Amrabat rinvigoriscono simili fantasmi e generano un pericoloso mix (pur con tutte le garanzie del caso sull'esito diverso delle vicende).
Il nodo cruciale, a questo punto, non riguarda tanto la cessione in sé dei pezzi pregiati: non è detto che trattenendo chi vuole partire si ottengano risultati ma, al contempo, gli investimenti fatti fin qui hanno ripagato solo parzialmente l'esborso. In particolare gli acquisti di Cabral e Ikoné, a fronte di una spesa di primo ordine, non hanno saputo allontanare i tifosi dai rimpianti per chi se n'è andato, non hanno instaurato un meccanismo virtuoso in cui l'affare sul fronte economico si traduce poi in risorsa sul fronte sportivo.
Il problema costituito dal mercato, dunque, non esiste solo in funzione del "no" aprioristico alle cessioni: si tratta di non riuscire a comprendere in modo totale la visione e l'idea di calcio che gli affari portano in sé. Una dinamica virtuosa che, ad esempio, riuscì a instaurarsi (con tutti i rischi del caso) con la prima Fiorentina di Montella (dal 2012/13 in poi) e con una squadra costruita a immagine e somiglianza del tecnico.