CR7 vs Ibra: due modalità opposte di incanalare un ego ingombrante
Una delle sfide principali e più ostiche per un campione, al di là dei record e dei riconoscimenti individuali, risiede nel necessario controllo di un ego che, per forza di cose, è divenuto via via più importante e accentratore: deriva anche logica quando diventi icona oltre che professionista, quando la tua presenza in sé è in grado di generare un indotto mastodontico per le casse di un club, quando insomma la tua dimensione e quella di una società calcistica diventano (almeno) paritarie.
Complesso percepirsi come un mero ingranaggio al servizio di una causa più grande, come uno dei tanti componenti di una rosa: il gioco è quello di tenersi in equilibrio tra le spinte dell'ego, appunto, e la convivenza con esigenze diverse, il tutto col monito della carta d'identità e del tempo che continua a scorrere.
Un elemento alieno
Di fronte a Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimovic appare illogico mettere in dubbio le doti professionali e l'abnegazione dei due verso il lavoro, un culto e una cura di sé di cui i due hanno saputo dar prova a più riprese, mostrando quanto l'aspetto anagrafico non infici in alcun modo sulla forma fisica e atletica, grazie a un lavoro maniacale su di sé e alla capacità di mantenersi profondamente disciplinati.
Esiste però, al di là di palestre ed esercizi, il tema della gestione mediatica di quell'ego smisurato: un piano che, ad oggi, vede CR7 e Ibra vivere su piani per certi versi opposti, con un effetto altrettanto differente rispetto a tifosi e addetti ai lavori. L'ultimo eclatante segno di insofferenza del portoghese nei confronti del Manchester United dice tutto: Cristiano Ronaldo, ai microfoni del Sun, non risparmia provocazioni anche pesanti, lo fa riferendosi sia a Rangnick ("non lo avevo mai sentito nominare") che all'attuale tecnico Ten Hag ("non lo rispetto perché lui non rispetta me").
Un atteggiamento che rende chiaro quanto il portoghese, avvolto da quello stesso ego citato poco fa, si percepisca come un'entità in grado di giudicare chi sia o meno degno di allenare il club in cui milita, chi sia o meno degno di rispetto e di riguardo. Tutt'altro che un ingranaggio funzionale alla causa ma un elemento alieno che, finito in un dato contesto, arriva a favorirne lo sgretolamento, a minacciarne ogni possibile equilibrio (perlomeno agli occhi dell'opinione pubblica).
Una riflessione sulla storia dei Red Devils post-Ferguson è logica, senz'altro, ed è anche naturale che un elemento abituato a vincere come CR7 finisca per soffrire qualunque contesto che non appaia sufficientemente competitivo: si tratta dell'ovvio trauma dovuto alle finali di Champions tramutate in sfide di Europa League (vissute non necessariamente da protagonista). I toni e le modalità, però, spostano tutto dal piano della riflessione a quello dello scontro.
La prospettiva di Ibra
La prospettiva del muro contro muro, del giocatore talmente accentratore da poter sfidare un intero club, appare distante dall'ottica con cui Ibrahimovic si è calato nelle sue ultime stagioni da calciatore, costellate peraltro da problemi fisici e da un logico divario tra volontà e acciacchi da superare. Lo svedese cavalca da sempre il proprio ego con le armi dell'iperbole e dell'ironia, ponendosi in questo senso su un piano totalmente diverso da quello frequentato da CR7: le provocazioni, nel caso di Ibra, diventano sì un costante pungolo verso le realtà in cui si trova, senza però arrivare realmente a invadere le posizioni altrui.
Una prova di acume e intelligenza peraltro riconosciuta da tanti tecnici che hanno avuto modo di allenarlo, da Pioli ad Ancelotti, pronto a sottolineare lo spessore umano di Ibra anche nella recente intervista a Che tempo che fa.
Lo svedese conosce perfettamente il proprio valore ma riesce, ed è riuscito, a plasmare il proprio atteggiamento in base al momento storico vissuto, in base al proprio effettivo impatto sul campo: la sua seconda avventura al Milan lo ha visto diventare guida carismatica e leader di un gruppo giovane, lo ha visto mettere al servizio degli altri la propria esperienza e la propria natura da condottiero senza però anteporre se stesso alla visione d'insieme. Un modo, insomma, più che mai costruttivo e persino altruistico di indirizzare quelle naturali spinte dovute all'ego di un campione.