Cristiano Ronaldo in Arabia? La contraddizione è tutta sportiva
Che il calcio e i bei sentimenti siano vicini di casa dal rapporto conflittuale, due che prima si amano e poi si guardano in cagnesco, non lo scopriamo oggi: si tratta del regno della doppia morale e di un'etica pronta, volta per volta, a vestire abiti diversi, tornando utile in base alle circostanze.
Si sostengono cause e se ne affossano altre, insomma, scoprendo a ogni passo una nuova forma di giudizio: diventa pretestuoso e fin troppo ingenuo fare le pulci ai contratti faraonici, ragionare ora sul peso di 20 o 200 milioni a stagione. Siamo nel mondo delle iperbole e lì si resta, senza spostare di una virgola la questione.
Anche l'idea del trasferimento del campione di turno in una realtà "esotica", fin qui aliena al grande calcio, è tutt'altro che inedita e da decenni regala ingaggi tanto ricchi quanto storicamente surreali: impossibile, dunque, vedere il possibile passaggio di Cristiano Ronaldo all'Al Nassr come un evento slegato dal suo contesto, come un fulmine a ciel sereno.
Dalle accuse all'addio
Il tema qui, volendo scoprire una contraddizione di fondo in un simile accordo, è probabilmente di natura diversa, più vicina allo sport che non alla valutazione dell'opportunità extracalcistica (con tanto di progetto arabo di ospitare i Mondiali del 2030). Il nodo è tutto sportivo, insomma, e ci pone realmente davanti a un'ambiguità, a una direzione potenzialmente contraddittoria nelle scelte del portoghese.
Torniamo quindi all'intervista della discordia, a quelle dichiarazioni così severe e dirette nei confronti del Manchester United che, a tutti gli effetti, hanno condotto poi alla rottura tra le parti, a un divorzio tanto clamoroso quanto inevitabile.
Nelle dichiarazioni rilasciate a Piers Morgan emerge un'accusa mirata e potente nei confronti del mondo United: CR7 entra nel merito delle infrastrutture del club, ritenute tutt'altro che all'avanguardia, e sottolinea come le scelte compiute fin dall'addio di Sir Alex Ferguson siano state deleterie e controproducenti per i risultati e la crescita della società.
Giudicare...e poi partire?
Il tutto arrivando persino a mettere in dubbio (eufemismo) l'autorevolezza di Rangnick e di Ten Hag. Valutazioni espresse in modo tutt'altro che diplomatico, fuori dagli schemi del rapporto giocatore-club, ma che possono certo avere un fondo di verità che si riscontra nei risultati ottenuti dai Red Devils, ben lontani dai parametri storici del club.
Appare per certi versi contraddittoria, dunque, la volontà di stabilire cosa serva per essere grandi nel calcio che conta (quello fatto di titoli nazionali e internazionali) per poi spiccare il volo verso un altro mondo, verso una realtà di tutt'altra natura e consistenza sportiva. Come a voler indicare una ricetta per poi scegliere di uscire di scena.
Una presa di posizione così dura e senza appello richiederebbe, in sostanza, una nuova sfida che abbia un suo peso sportivo e un suo spazio di uguale dignità rispetto a United, Real Madrid e Juventus, senza dover diventare meramente un testimonial di istanze esterne al campo. Un epilogo simile, a conti fatti, potrebbe anche far capire come le posizioni di Ten Hag non fossero poi così autolesioniste e illogiche rispetto al fuoriclasse portoghese.