Dall'alchimista al genio: tante forme diverse di eroe nel Napoli del terzo Scudetto
Si è detto a più riprese, giustamente, quanto il terzo Scudetto del Napoli porti in sé come impronta fondamentale quella "forza del gruppo" tante volte inseguita dagli allenatori come vera chimera, quella capacità di accantonare i capricci dell'ego per sposare una causa più grande.
Poco spazio per gli assoli e tanta voglia invece di armonizzare il lavoro, di rendersi ingranaggi utili e funzionali: difficile spostare altrove il racconto dell'impresa azzurra, soprattutto dopo un'estate ricca di addii pesanti, ma appare altrettanto evidente come alcuni singoli abbiano saputo (più di altri) trarre forza dalle virtù del collettivo, è logico che - dentro e fuori dal campo - qualcuno possa reclamare il ruolo del protagonista.
Un novero di protagonisti multiforme, multietnico, del tutto impronosticabile e, proprio per questo, capace di costruire un bel pezzo di storia.
Giuntoli: il coraggio delle intuizioni
Come si trasforma l'estate dell'esodo e dello scetticismo nella primavera del trionfo? Dentro la formula magica raccontata da questo Napoli esiste, senz'altro, il segno del direttore sportivo Giuntoli: si ha prova, in questo caso più che mai, quanto il lavoro svolto sul mercato abbia una grammatica differente dal clamore dei titoli e dall'umore dei tifosi.
Se prima degli addii di Koulibaly e Insigne, per citare i principali, qualcuno avesse tirato in ballo un centrale sudcoreano del Fenerbahce e un fantasista georgiano del 2001 (per di più in forza alla Dinamo Batumi) l'unica e inesorabile reazione, del resto, poteva essere un rassegnato scoramento, una logica titubanza rispetto a scenari d'élite e la speranza, nella migliore delle ipotesi, di porre le prime basi per un ciclo a lungo termine. Il contrario dei cosiddetti instant-team, in sostanza.
Accanto alla capacità di concretizzare un colpo che già altri avevano provato a concludere, ci riferiamo a Kvaratshelia, si pone anche il coraggio di seguire le proprie intuizioni e di renderle parte integrante di un progetto, l'azzardo di un'idea che (pur senza clamore o enfasi mediatica) si rivela poi fondata, tutt'altro che campata in aria.
Al contempo diventa basilare la capacità di attingere in luoghi sportivi per niente inflazionati, da realtà calcistiche generalmente ritenute marginali o comunque periferiche: una capacità di muoversi fuori dagli schemi che, stavolta più che mai, ha premiato. Un discorso che può anche allargarsi all'intero gruppo, anche a quegli elementi rivelatisi comunque preziosi pur senza partire titolari: il merito del ds è stato anche quello di dare a Spalletti tutto il materiale per forgiare un gruppo sano e collaborativo. Il tutto, difficile dimenticarlo, riuscendo a favorire l'utopia di vincere abbassando il monte ingaggi: il vero sogno (sostenibile) di ogni proprietà.
Spalletti: aziendalista? No, alchimista
A Giuntoli e alla proprietà va dunque il merito di una costruzione razionale, condotta anche a costo di scivolare nell'impopolarità e di fare i conti coi mugugni iniziali della piazza. Accanto a un simile presupposto, però, serve anche chi sappia portare sul campo quanto di buono è stato pensato a monte, sia nel lavoro quotidiano a Castel Volturno che nella traduzione tattica in partita.
Luciano Spalletti ci è riuscito, lo ha fatto a modo suo, creando un nuovo genere di allenatore aziendalista: non una vittima di quanto deciso ai vertici, non un mero ingranaggio costretto a subire decisioni altrui, ma un alchimista chiamato a tirar fuori l'oro da chi non sembrava (sulla carta) così pregiato. La retorica di Spalletti, in questa stagione più che mai, si è poggiata sull'etica del lavoro e sulla volontà di valorizzare le qualità di un gruppo più che sul vizio (spesso diffuso tra i colleghi) di denunciarne le lacune, di elencare i difetti da correggere.
Proprio in un collettivo capace di pensarsi squadra, di ascoltare i dettami di un tecnico più che i propri capricci personali, Spalletti ha potuto esaltare le proprie idee, ha potuto creare quella squadra in grado di dominare, di dettare il ritmo, di divertire e al contempo concretizzare. Una squadra che, ad oggi, può vantare il miglior attacco (di gran lunga) e la miglior difesa del campionato, che ha dominato nel possesso senza però renderlo sterile o fine a se stesso, che sta esprimendo il capocannoniere del campionato (Osimhen) e anche il miglior assistman (Kvaratskhelia).
Kim Min-jae: da mistero a pilastro
Un gruppo di centrali composto da Kim, Rrahmani, Juan Jesus e Ostigard è un gruppo "da Scudetto?" Sarebbe interessante paragonare le conclusioni tratte a priori da quelle emerse poi nei fatti, quel che è evidente è quanto l'effetto Kim abbia saputo spostare in blocco ogni valutazione fatta su un reparto arretrato orfano di Kalidou Koulibaly.
Per mesi l'idea di un addio di quest'ultimo, pilastro della difesa dal 2014 al 2022, sembrava rappresentare una minaccia assoluta per la tenuta difensiva della squadra, sembrava rendere utopistico il proposito di sostituirlo degnamente. Giuntoli seguiva da tempo Kim, già dal 2019 su indicazione dell'allenatore Maddaloni, ed è di fatto riuscito a strapparlo al Rennes nonostante un accordo già raggiunto coi francesi. Un intervento convincente, in extremis, tale da dare seguito alle numerose verifiche svolte da Giuntoli e dal Napoli sul giocatore: un profilo che non scaldava la piazza ma che, agli occhi degli addetti ai lavori, poteva funzionare.
I risvolti virtuosi dell'affare sono emersi poi in modo dirompente: Spalletti ha trovato un centrale solido, dalla grande cultura del lavoro, l'idillio tra i due è esploso e si è riflesso anche sulla piazza partenopea, pronta a cullarlo e a cancellare ogni forma di scetticismo iniziale. Doti atletiche e fisiche, attenzione nelle letture, coraggio e capacità di uscire dalla difesa con personalità: il mistero iniziale si è tradotto in un vero e proprio muro, tanto da non far rimpiangere l'eccellente predecessore.
Di Lorenzo: il capitano ideale
Tra le tante storie che compongono il mosaico del terzo Scudetto, quello dell'annata magica del Napoli, uno spazio speciale lo merita Di Lorenzo: capitano e calciatore più impiegato dell'intera rosa, un vero e proprio insostituibile, un punto fermo che ha saputo diventare il "robot" attuale (citando Spalletti) grazie a una lunga gavetta. Un percorso che, più di ogni altro, racconta l'insieme di un Napoli orientato più al gruppo che non alla celebrazione dell'individualità.
Nessuna scorciatoia e nessun tragitto facilitato, dunque, ma la capacità di raccogliere quanto seminato e di farsi spazio a suon di prestazioni. Arrivato in Serie A a 25 anni, in una realtà come quella empolese, ha saputo reggere al meglio il colpo col passaggio in una piazza ambiziosa come quella partenopea e già nella prima stagione a Napoli (2019/20) ha conquistato un posto da titolare.
L'addio dei veterani in estate lo ha reso capitano, ha premiato ulteriormente l'abnegazione e la continuità espresse fin dal proprio arrivo. Di Lorenzo ha ripagato con gli interessi la fiducia di Spalletti e del gruppo, non limitandosi al ruolo di leader ma fornendo prove convincenti in entrambe le fasi, rivelandosi attento in copertura ma anche pungente nelle sortite offensive oltre che atleticamente granitico e instancabile nelle sue discese.
Lobotka: proiezione di un pensiero
Si parla in questo caso di una crescita esponenziale, di "uno tra tanti" che diventa invece insostituibile e cruciale. Non si parla meramente di quel calciatore a cui ci si appoggia per mettere il pallone in cassaforte, non c'è solo quello: nel Lobotka di questa stagione si trova l'espressione dell'impronta che Spalletti ha voluto dare al suo Napoli, si trova quel tratto identitario che si è tramutato poi in dominio.
Lo abbiamo definito direttore d'orchestra, metronomo, cervello della squadra: Lobotka detta il ritmo, comprende il tempo di ogni momento di un match, sa accelerare e sterzare oppure sa quando rivelarsi più conservativo. Un insieme di fattori in grado di renderlo un punto fermo assoluto (terzo della rosa più utilizzato in campionato) e un ingranaggio irrinunciabile per non compromettere il pensiero di una squadra, per non stravolgerla.
Il tutto abbinato a una grande generosità e all'utilità in fase d'interdizione, unendo dunque qualità e quantità, pensiero e sacrificio. Una vera e propria sintesi, del resto, di ciò che Spalletti ha voluto costruire. Lo stesso Spalletti, oggi, può prendersi tanti dei meriti per il rilancio di un calciatore di cui ci siamo accorti troppo tardi, capace di rompere una volta per tutte lo stigma che lo accompagnava.
Kvaratskhelia: genio maturo
I numeri parlano una lingua ben chiara e specifica, pur richiedendo spesso un impegno di interpretazione e di distinguo. Nel caso di Kvaratskhelia parliamo di un impatto dirompente sulla Serie A, espresso meramente in 12 gol e 12 assist fin qui, diventando uno dei pochi calciatori europei a poter vantare una doppia-doppia nei principali campionati del vecchio continente.
Un talento come quello del georgiano, con un idillio da parte di Giuntoli che inizia da lontano e che ha saputo tradursi in realtà, ci permette fortunatamente di spostarci dal discorso statistico e di porla sotto una luce differente, più stimolante. Si parla cioè di fantasia come faro, come riferimento ultimo, con la capacità di abbinarla però a virtù funzionali alla squadra: non il dribbling fine a se stesso, non la volontà di specchiarsi ma tanta fame nell'attaccare, altrettanto spirito di sacrificio, la capacità di calarsi in un collettivo con umiltà, tradendo anche i pregiudizi del dato anagrafico.
Kvaratskhelia ha saputo rendersi Kvaradona, si è ritrovato ritratto sui muri di una città, ha dato il nome a un nascituro. Non si è però ubriacato di tutto questo, ha attinto a tutte le riserve di energia e non si è cullato sugli allori. Dati resi ancor più clamorosi pensando, come nel caso di Kim, alla necessità di sostituire un simbolo del calibro di Lorenzo Insigne: una missione impossibile divenuta realtà.
Osimhen: la genesi di un eroe
Ultimo ma non ultimo, per forza di cose, l'autore del gol Scudetto alla Dacia Arena, il trascinatore, il top player già pronto ad affollare per mesi le cronache di mercato. Chi se non lui? Victor Osimhen ha saputo rompere un'attesa diluita più del previsto, lo ha fatto con una zampata, avventandosi sulla respinta del portiere e concretizzando - insomma - quel punto fatale, quello dello Scudetto.
Al di là del contributo formalmente decisivo, però, esiste un ruolo da trascinatore tecnico ma anche simbolico: tutta la costruzione narrativa attorno alla sua maschera ha tracciato un identikit da vero supereroe, ha creato un vero e proprio mito attorno all'oggetto divenuto, col tempo, il simbolo di quelle corse inesorabili verso la porta, la rappresentazione di tiri secchi e di una potenza impossibile da arginare. Diventando, a tutti gli effetti, oggetto di culto.
Osimhen ha fatto tutto questo in un contesto, quello di Napoli, che ci ha abituati a prime punte prolifiche, un contesto che ci ha regalato le pagine migliori nelle carriere di Cavani e di Higuain. Le voci sulla Premier League aleggiano, lo faranno a lungo, ma non è ancora tempo di futuro: oggi si celebrano gli eroi, appunto, senza pensare al loro capitolo successivo, senza lo spazio per trame e intrecci oscuri che sporchino l'emozione di un pubblico.