Dalla cifra estetica alla concretezza: la Fiorentina ha cambiato volto
La versione più vera di un allenatore, quella effettiva, viene seguita come un'ombra dall'ingombrante profilo mediatico e dal racconto che di quello stesso tecnico si fa: difficile talvolta liberarsi dell'etichetta inesorabilmente appiccicata addosso, intere carriere, più o meno prestigiose, sono accompagnate (e lo sono state in passato) da ritornelli spesso poco lusinghieri. Catenacciaro, spregiudicato, difensivista, guru oppure mero gestore: banali esempi di quei tratti che, da sempre, vengono legati a doppio filo al profilo di un allenatore, quando se ne parla.
Uno stigma duro a morire
Nel caso di Vincenzo Italiano si fa riferimento, non da oggi, all'idea di un vero e proprio integralista, di un tecnico incapace di rivedere il proprio approccio e le proprie certezze tattiche in funzione dei momenti, degli avversari e dell'evoluzione della singola partita. Un atteggiamento che, per i critici, si traduceva in un approccio troppo arrembante e nel rischio di specchiarsi eccessivamente nella propria ricerca del gioco a tutti i costi.
Una critica tornata prepotentemente in auge quando la Fiorentina, sul finire del 2022/23, si è trovata a leccarsi le ferite per le due finali perse di misura; uno stigma che segue Italiano nel tempo e che agli occhi di molti lo qualifica. All'interno dell'evoluzione che, in modo naturale, appartiene alla carriera di un tecnico potremmo riferirci - nel caso di Italiano - al passaggio al 4-2-3-1 e all'accantonamento quasi definitivo del 4-3-3, compiuto nella scorsa stagione per sfruttare al meglio Bonaventura e Barak sulla trequarti (e per affiancare ad Amrabat un mediano dalle caratteristiche diverse).
Il salto di qualità
Si entra adesso in una svolta ancor più profonda, si assiste di fatto a un cambiamento ancor più significativo e in grado di tracciare un solco nella storia di Italiano in panchina e della squadra viola nella sua dimensione effettiva: nessuna rivoluzione tattica (sulla carta) ma la capacità di mandare in campo una Fiorentina più cinica, solida in difesa e capace di tradurre in punti i propri sforzi.
Una squadra che, senza Nico Gonzalez, ha saputo scovare un volto diverso: non potendo più contare sulla tecnica dell'argentino, sulla sua capacità di saltare l'uomo, i viola si scoprono più concreti e resilienti, capaci di restare in partita nei frangenti di difficoltà e di apnea (come il primo tempo col Verona e quello col Torino) per poi attaccare l'avversario nel momento del suo calo, capendo poi come gestire il risultato senza andare in affanno (anche con l'ausilio sorprendente della difesa a tre a partita in corso).
Inter e Juventus, del resto, ci stanno insegnando come la capacità di colpire l'avversario nel momento di maggiore fragilità e la solidità difensiva siano due chiavi di volta, due presupposti ineludibili per chi vuole competere al vertice. C'è qualcosa di curiosamente entusiasmante nel superamento della "bellezza" come condizione necessaria per vincere, qualcosa che somiglia alla presa di consapevolezza di una squadra che da outsider ambisce a diventare una realtà, che sta interiorizzando (a livello di DNA) la necessità di slegare i punti fatti dalla cifra estetica proposta.
Per assurdo può esserci qualcosa di incoraggiante anche in un primo tempo di minor possesso, anche in minuti vissuti con la guardia alzata. Un passaggio cruciale, tradotto in tre 1-0 consecutivi, che diventa un salutare segno di pragmatismo: nel corso di una stagione i momenti di affanno e di emergenza numerica sono all'ordine del giorno (a maggior ragione con tanti impegni) ed è evidente quanto diventi cruciale, finalmente, capire quando sia necessario mettere via il vestito buono (spesso apparso come una scomoda trappola).