La dura legge dell'autogol: le lacrime di Lollo, calciatore senza corazza
In mezzo a ricercate citazioni alte, che dovrebbero in qualche modo aiutarci ad assegnare al pallone un valore che trascenda il suo banale rimbalzare in questa o quella rete, capita d'imbattersi - nel senso più virtuoso possibile - nelle lezioni che ci riserva ciò che definiamo popolare, ciò che nel corso degli anni entra nell'immaginario senza il bisogno di arrampicarsi o di fare della poesia a tutti i costi.
La dura legge del gol, quella degli 883 per intendersi, quella che ti insegna come tu possa "fare un grande gioco però" trovare al contempo come epilogo costante e inesorabile quello della sconfitta, applausi di consolazione o pacche sulle spalle. La consapevolezza di aver dato tutto, di aver conquistato l'onore delle armi, può rincuorare tiepidamente, può sedare in modo leggero l'animo di qualche tifoso, ma di certo non ha il potere di fermare le lacrime di Lorenzo Venuti.
Senza corazza
Nato a Montevarchi (AR) ma fiorentino già dalla carta d'identità, basti pensare come Lorenzo sia proprio il nome scelto per la neonata mascotte della Fiorentina, Venuti ha sempre espresso a chiare lettere il valore inestimabile - l'onore misto all'onere - di difendere la squadra di una città divenuta la sua, di diventare rappresentate sul campo di quel che si vive non soltanto da atleta, di ciò che insomma si sarebbe vissuto comunque, stando dalla parte degli spalti anziché sul campo.
Onore e onere, appunto, gioia sul costante orlo del baratro: il prezzo da pagare, si è visto in tutta la sua forza al 92' di Fiorentina-Juventus, è l'assenza totale di un sedativo, della corazza del professionista duro e puro che smette di rodersi dentro quando i tre fischi risuonano, quando si va tutti a casa. Tornando al valore dei riferimenti popolari, ancor prima di ripide risalite verso qualcosa di gratuitamente alto, è eloquente già in sé il peso simbolico dei momenti, quando si parla di campo.
Metti insomma un calciatore che, caso raro, vive nella propria carriera il sogno di essere professionista con la maglia della propria squadra del cuore, metti una sfida in cui c'è qualcosa di pesante in ballo, un ingresso in campo nella ripresa e la necessità di fronteggiare rivali di alto profilo. Rivali, appunto, quelli che indossano l'opposto della maglia che senti tua, quelli che il tuo popolo vive da sempre come la propria stessa nemesi.
Dal sogno all'incubo
Lo spazio dal sogno all'incubo dura poco più di un secondo, ha le fattezze minacciose di un pallone messo in mezzo da Cuadrado quando l'arbitro sta già per fischiare la fine, ha la forma di un intervento d'istinto, col solo desiderio di evitare la disfatta finale, un intervento che anziché scongiurarla finisce per diventarne la causa definitiva (almeno nella mente, immaginiamo, del numero 23). E poi il pianto.
Una reazione inconsolabile, quella di chi si rende perfettamente conto di vivere una condizione unica in mezzo agli altri ventuno atleti in campo, di chi sente una colpevolezza addosso ben slegata dal gesto tecnico più o meno corretto. Lacrime in cui si trova il senso intero di una condizione: il più fragile che sogna di farcela e poi si trova sopraffatto, il Davide beffato da Golia quando pensa di averlo ormai stordito.
L'essenza stessa, poi, di una rivalità tra chi si sente intimamente portatore di un'appartenenza sincera e chi - dal canto proprio - ha nell'aggiungere tacche al conto delle vittorie la propria cifra distintiva (rivendicata con orgoglio). Come se tutto fosse scritto in quei motti e in quelle parole: fino alla fine, dicono, oppure che vincere è l'unica cosa che conta. Lorenzo Venuti non l'ha mai vista così, parla un'altra lingua e ragiona di tutt'altre faccende, e facendolo ha già escluso dall'orizzonte la possibilità di essere colpevole se non del fatto, quello sì, di essere diverso.
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