ESCLUSIVA 90MIN | Amedeo Carboni: "Samp? Il Paradiso. Aneddoto con Mazzone? Tutto vero! Vi racconto la 'mia' Liga"
Intervistato in esclusiva dalla nostra redazione, l'ex Valencia e Roma, Amedeo Carboni, ha risposto ad alcune domande, svelando alcuni retroscena. Di seguito l'intervista.
Che esperienza è stata Genova? Arrivare, poi, per te, giovanissimo, trovarsi con Vialli, Mancini che avevano la tua età, ma che erano già affermati? Che esperienza è stata lavorare con Vujadin Boskov che, dal punto di vista della comunicazione, è stato con un avanguardista.
"Il mio arrivo alla Sampdoria è stato come il culmine. Io avevo già assaggiato la Serie A sia a Bari che a Empoli, quindi arrivare alla Samp dopo una grande stagione con il Parma era, per me, un punto di inizio di una carriera. Fino a lì avevo fatto poche presenza, mentre lì arrivavo come sostituto di Briegel. Avevo altre società importanti dietro, ma scelsi proprio la Samp per l'ambiente, la presenza di giovani e per il fatto che tutti parlassero bene del presidente e dell'allenatore che era un pò un padre verso quei ragazzi. Quell'anno lì, poi, arrivarono giocatori importanti come Dossena e arrivò anche Victor Munoz che mi raccomandò al Valencia. Perciò, per me, è stata la prima grande esperienza in un ambiente bellissimo, in cui ho vissuto stagioni stupende, con alti e bassi come tutte le cose, certo".
Portare un titolo (la Coppa delle Coppe del 1990) in una piazza come Genova, calda, passionale, ma non abituata alla vittoria, che soddisfazione ha dato a voi come gruppo? Com'è stato vedere la felicità della gente che segue la squadra con molto trasporto e che si è ritrovata a festeggiare due volte in due anni (la stagione precedente era arrivata la Coppa Italia contro il Napoli di Maradona)?
"Beh, devo dire che, per quanto riguarda la Coppa Italia, fossero già abituati perchè l'avevano vinta qualche anno prima (la stagione precedente, ndr). La sconfitta a Berna, contro il Barcellona, nella prima finale fu la nostra entrata in Europa a livello importante perchè, all'epoca, la Coppa UEFA aveva grande importanza visto che in Champions League ci andava solo la vincitrice del campionato. Perciò arrivare alla finale era un prestigio importante. La perdemmo, anche se arrivammo in condizioni non buone tra infortunati e assenti. Il riscatto dell'anno dopo fu importante perchè da lì la Samp vinse lo Scudetto, arrivò in finale di Coppa dei Campioni. Quelli furono i 4/5 anni più belli della storia della Sampdoria. Averne vissuti almeno due su quattro è stata, per me, una bellissima esperienza".
Tu, poi, vai a Roma. Quando un calciatore inizia un ciclo, cambia e vede che il ciclo continua, come si sente? Ho letto qualcuno, nei forum, dire che se ci fossi stato a Wembley magari la Samp avrebbe vinto la Coppa dei Campioni.
"Anche a me sarebbe piaciuto stare lì, senza dubbio.La mia carriera, però, è stata importante, fortunata e credo di averci messo del mio perchè quando duri tanti anni ad alti livelli non può essere solo fortuna. Io, tra l'altro, non ho mai avuto un procuratore, quindi mi sono anche divertito a trattare i contratti, le clausole. Questo, poi, mi ha aiutato tantissimo nel mio lavoro attuale in cui si parla sempre di soldi".
A Roma rimani sette anni e l'ultima stagione la fai da capitano. Anche lì inizi subito con il botto. A Roma, come a Genova, c'è molta passione, la città respira calcio 24 ore su 24 e arriva subito la Coppa Italia (con la Sampdoria, ricorda Carboni). Che effetto ha fatto vincere da ex? E vincere a Roma?
"Ti devo dire che Genova, all'epoca, era un Paradiso. In quel momento tutti i giocatori volevano venire. Non solo andare alla Juve, al Milan o all'Inter. A Genova si era immuni da critiche e fatti brutti come ultras violenti. Era il classico Paradiso della Serie A grazie a un presidente spettacolare. A Roma, invece, ti accorgi di quello che è vivere la passione di 3 milioni di persone, il fatto di poter arrivare a essere celebrato come il Papa o essere insultato per strada. Queste cose succedono a Roma. Ci sono stati periodi in cui venivamo chiusi a Trigoria dalla polizia. A Roma succede di tutto. Lì sono stati 7 anni belli e meno belli. Quando arrivai, dopo pochi mesi, morì Viola. Da quel momento ci furono vicissitudini societarie, Ciarrapico, Sensi... Però devo dire che Roma è una città che ti trasporta perchè ti succede tutto. Quando vai via da Roma puoi giocare ovunque. Ottomila giornalisti, quattrocentocinquantamila radio, settemila televisioni...".
A Roma trovi Carlo Mazzone. Quando si parla di Mazzone viene sempre fuori un aneddoto su di te. Io non ho mai trovato riscontri, quindi ti volevo chiedere se quel famoso aneddoto ('Amedeo 'ndo vai?'), è vero?
"Si si, realmente era più lunga perchè il mio compagno dall'altra parte, il terzino destro, era Tarzan Annoni che andava sempre avanti. Sappiamo tutti che a Mazzone piaceva attaccare, però era un pò un contropiedista. In quell'aneddoto io gli passai davanti e allora lui, tutto arrabbiato: 'Ma dove vai?Anche tu, come quello là? Ma quante presenze hai?" e io: '200/300'. 'E allora dove vai?'. Più che altro lui era arrabbiato con me che ero lì davanti perchè, in realtà, ce l'aveva con Annoni a cui non poteva dire nulla. Menomale che vincemmo quella partita. Io con Mazzone, che ho sentito qualche tempo fa, ho sempre avuto un rapporto speciale. Lo posso dire perchè mi ha sempre difeso in tutto. Quando arrivò lui mi nacque un figlio dopo l'altro e, quindi, arrivavo al campo con gli occhi stanchi. E allora lui mi chiedeva come stavo e mi faceva riposare. Un personaggio stratosferico".
Diverse tipologie di giocatori, da Pirlo a Baggio e Guardiola, tutti parlano di Mazzone come una persona straordinaria. Tu, a Roma, sei stato testimone di quello che, per i tifosi giallorossi, è il più grande avvenimento degli ultimi 30 ann, ovvero dell'esordio di Totti in prima squadra. Quando è arrivato tra voi si vedeva già il talento? E poi ti aspettavi una carriera lunga come la tua?
"Devo dire che, negli anni che sono stato a Roma, le squadre giovanili erano fortissime. In quelle c'erano Muzzi, Grosso, tanti giocatori che sono arrivati in A. Totti era il gioiello di quella squadra. Lui esordì con Boskov a Brescia, ma è con Mazzone che si prese la maglia da titolare. Con lui non era più il classico giocatore della Primavera che veniva in prima squadra ogni tanto, ma era il titolare. E' cresciuto tanto con Mazzone, poi lui ha avuto una fase non bella con Bianchi, l'argentino, che lo voleva mandare via (alla Sampdoria, ricordano). Per tutti i giocatori c'è un allenatore che non ti può vedere. Poi, ti dico la verità, non sono rimasto colpito della sua carriera perchè era un predestinato. Che durasse così tanto? Sono sempre stato dell'idea che più si andava avanti più i giocatori diventassero professionisti, che diventassero più completi a partire dai 28 fino ai 35 anni. Secondo me, in quegli anni, un calciatore è al top, salvo infortuni. Lui, quindi, era impossibile non arrivasse a 40 anni. Per di più aveva tanta di quella tecnica da regalare anche da fermo. Era avvantaggiato rispetto a noi che dovevamo correre sempre".
Non posso non chiederti il derby romano. Qualche settimana fa Stefano Fiore me lo ha raccontato dal suo punto di vista, quello della metà laziale. Cosa significa giocare e vincere il derby con la Roma?
"Alla mia epoca, per Roma e Lazio vincere lo Scudetto era un qualcosa di remoto. Il derby, quindi, era la partita, dove si decideva la supremazia visto che le due squadre arrivavano sempre in lotta per un piazzamento in Coppa UEFA. Spesso più la Roma che la Lazio in quegli anni, per fortuna. Era la partita, quindi, più importante. Si viveva già quindici giorni prima e se ne riparlava per un'altra settimana o dieci giorni. Quella settimana che gli ultras venivano a trovarci tutti i giorni. Ho un ricordo bello e uno brutto con loro. Un anno vennero prima di un derby, eravamo in 5/6 con loro e gli chiesi perchè non venissero anche nei giorni prima di altre partite. Da lì, per 6 mesi, mi fischiarono. Poi, invece, è nato un amore. Quando tornai con il Valencia, da ex, mi fecero uno striscione, ma perchè c'era un rapporto schietto".
Pensi che possa essere un limite di Roma viverlo in modo quasi religioso?
"Prima l'ho pensato, poi, col tempo, ho detto che è una cosa bella. Non è un limite, anzi. E' una fortuna avere i derby in una città. Vedi la gente che cambia totalmente in quella settimana. Un pò come il palio di Siena che, in famiglia, se non sono della stessa contrada, si separano".
Estate del 1997, avevi 32 anni, vai a Valencia e lì inizia la tua leggenda. Quando ho detto ai colleghi spagnoli che avrei parlato con Amedeo Carboni si sono illuminati. Tu a Valencia hai fatto qualcosa di straordinario. Come nasce questa opportunità?
"Quando ero a Roma ero ancora in Nazionale, ero capitano dei giallorossi e mi succede un infortunio importante al tendine d'Achille. Avevo ancora un anno di contratto, ma con Sensi avevo un rapporto burrascoso e, così, loro decisero di vendermi. Io non sarei voluto andare da nessuna parte. Un procuratore, Antonio Caliendo, che lavorava spesso in Spagna, venne a Roma per andare da Favalli. All'epoca Cragnotti sparò alto, 12 miliardi di lire. Per gli spagnoli quella cifra per un difensore era impensabile. Allora Caliendo, anche se sapeva che non stavo bene, voleva comunque fare una trattativa e venne a Trigoria dicendomi che c'era il Valencia. Io gli dissi: 'Antonio, io non sto bene. Non ho mai corso' e lui: 'Ma no, tranquillo, In Spagna non sono così aggressivi'. In quel momento mi chiamò Roy Hodgson, allora allenatore del Blackburn, in quel momento una grande squadra. Gli dissi: 'Mister, la ringrazio, ma primo non sto bene e, poi, non posso portare mia moglie lì.' Blackburn in centro ha una fabbrica di carbone, è tutta grigia. Invece Caliendo mi convinse, andai in sede. Mi metto d'accordo con un fazzolettino, loro titubanti perchè guadagnavo come Romario, ma gli dissi che con due figli e uno in arrivo non mi sarei mosso per meno di quella cifra. A due giorni dalla fine del mercato, mi presero a scatola chiusa. Entriamo in sede, chiesi se le due società avevano l'accordo e dissi ai dirigenti giallorossi di uscire dalla stanza. Il presidente del Valencia fece un gesto al suo vice come a dire 'chi compriamo?!'".
Però, poi, il campo ti ha dato ragione.
"Sono stato fortunato. Credo che la mia fortuna fu cominciar male. Nelle prime 5 partite, mi buttarono fuori 2 volte. Avevamo Valdano allenatore, io arrivai il giovedì sera e la domenica mi fece giocare con il Barcellona. Io non correvo da tre mesi, quindi puoi immaginare il mio esordio. Anche se non andò male, però mi buttarono fuori. Il fatto di aver cominciato male fu la mia fortuna perché cambiare l'opinione della gente fu la mia forza e ci sono riuscito".
Durante la tua carriera, sia con la Sampdoria sia con il Valencia, ti è capitato di perdere delle finali e di prenderti, poi, delle rivincite. Le rivincite a Valencia sono state importanti perchè quando uno vince il campionato due volte negli anni del Real dei Galacticos è qualcosa di sensazionale. Che cosa scatta in un giocatore dopo la sconfitta? Come si prepara la vittoria successiva?
"Difficile da dire. Il calcio è uno sport di gruppo, non è come il tennis dove la testa conta di più. E' vero, però, che quando arrivi da una sconfitta così bruciante come la prima finale di Champions League, in cui tu pensi che non ci ritornerai. L'anno dopo siamo arrivati nuovamente in finale, quello è stato uno degli anni più belli perchè alla prima volta ci trattavano da Cerentola. La stagione dopo, invece, no. Tutti se l'aspettevano. Quindi è stato più bello. Abbiamo perso ai rigori e quella è la finale che brucia veramente. La fortuna è stata arrivare negli anni più belli della storia del Valencia e nel periodo del boom della Spagna che, in quegli anni, nel calcio, dominava in Europa. Poi vincere campionati, Coppa UEFA, supercoppe, Cope del Rey, è stato veramente bello, soprattutto negli anni del Real di Zidane, Figo, Raul, Casillas. Credo che la differenza l'abbia fatta il gruppo, forte e unito".
Sono stati anni di grandi sfide in Champions League. Hai detto che ti entusiasmava giocare contro l'Arsenal e che in ogni calcio d'angolo era un problema marcare Henry. Che giocatore era? Che sfide erano?
"L'altra sera guardavo una di queste partite con l'Arsenal con mio figlio perchè in quei due anni li abbiamo sempre incontrati tra ottavi e quarti di finale. Era una squadra fortissima, secondo me, insieme alla Lazio era la squadra da battere. Avevano Henry, Viera, Bergkamp, Ashley Cole, Ljunberg, fortissimi. Il più basso era o Henry o Bergkamp. Sol Campbell era una cassaforte, non avevo il coraggio di avvicinarmi. Il primo anno c'era anche il capitano, Adams. Quando marcavo Henry, quindi, visto che anche parlava italiano scherzavamo. 'Mi devo attaccare perché sennò non ci arrivo' gli dicevo e lui: 'No, lasciami'. Sono state partite tiratissime".
Hai parlato della Lazio come una delle squadre più forti d'Europa. Estate del 2001, Mendieta passa in biancoceleste. Viene pagato 90 miliardi, c'erano grandi aspettative e non riesce a imporsi. Tu che giocatore conoscevi? E cosa, secondo te, non ha funzionato con la maglia della Lazio?
"La mia idea è che un giocatore spagnolo, per quanto sia bravo, in Italia fa fatica di testa, a sopportare la pressione mediatica. Io in Spagna non l'ho vissuta, eppure a Valencia c'era tanta stampa, ma mai con la stessa pressione dell'Italia. Per noi italiani la Spagna è un Paradiso. Io ero taciturno prima delle partite. In Spagna si mette la musica, si fanno scherzi. Giocare con Real o Albacete era uguale. Stile sudamericano. Invece lo spagnolo che arriva in Italia trova un ambiente chiuso, noi, forse, la viviamo in modo estremo e il giocatore ha paura di sbagliare. In Spagna io non l'ho mai sentita".
Dopo Cuper arriva Benitez, è l'anno del doblete. Tu, coincidenza, torni a Goteborg, dove hai vinto con la Sampdoria. Che stagione è stata?
"Quell'anno lì abbiamo vinto campionato, Coppa UEFA e, poi, Supercoppa UEFA con Ranieri. Dopo c'è quel famoso trofeo, quello della miglior squadra del mondo. Stiamo parlando di Valencia, non di Real Madrid o Barcellona che, non dico siano abituate, ma ogni due-tre anni vincono. Vivere a Valencia in 5/6 anni tutte queste vittorie, e anche delusioni, era un successo. Non potevi andare per strada, c'era euforia, che, poi, coincideva con il boom sociale ed economico della Spagna. Tu vedevi la gente felice. Stagione strepitosa, arrivarono buoni giocatori, ma la squadra tenne una colonna vertebrale importante: Canizares, Ayala, io, Baraja, Albelda. Tutti giocatori che non andavano via. Poi venivano Carew, c'era Angulo, Vicente, Kily Gonzalez, Aimar".
Se dovessi scegliere il compagno più forte?
"Sono tanti. A me dispiacque per l'ala sinistra, Vicente, che si ruppe in Champions League, in Germania. Per me era il miglior esterno d'Europa. Era forte, faceva gol, era veloce, ottimo tecnicamente, un sinistro che cantava. Poi si ruppe la caviglia e fu un calvario per lui, però un trascinatore. Poi ne ho avuti tanti di compagni forti. Ho avuto la fortuna di giocare un anno con David Villa. Aimar, Mendieta in Spagna fu tremendo, anche Baraja, giocatore difficile da trovare. Faceva la fase difensiva, ma anche gol. L'anno che vincemmo la Liga era il nostro miglior marcatore con 8 gol. Era un gruppo importante. Difficile dire chi era il più forte".
Mentre eri in Spagna, hai avuto offerte dai top club? Da Real Madrid o Barcellona o da qualche altra squadra?
"Ero troppo vecchio (ride). Tant'è vero che un anno l'allenatore del Real Madrid, Toshack, voleva comprare un giocatore del Deportivo La Coruna, un centrale, Naybet, all'epoca 32enne. Ci fu una discussione nel giornale in cui il presidente lo considerava vecchio e Toshack disse che lo tenevano un pò e poi lo davano al Valencia dove il più giovane aveva 35 anni. Questo perché c'ero io, Angloma, Zubizarreta. Avevo troppi anni perché un club mi comprasse".
E invece con Benitez che rapporto c'è stato? Anche lui va via da Valencia, riesce a vincere a Liverpool, mentre ha fatto fatica in Italia. Pensi sia dovuto alla troppa pressione italiana?
"No no. Il mio rapporto con lui cominciò subito male. Lui non era la prima scelta della società. Lui aveva vinto il campionato con il Tenerife ed era la quarta scelta. Lui venne a Valencia quando io avevo 34 anni, quindi lui pensava che ero lì lì per ritirarmi. Il primo allenamento mi disse: 'Tranquillo, Amedeo, io ti voglio dosare'. Io lo guardai. A fine allenamento gli dissi: 'Mister, forse non ci siamo capiti. Se lei pensa che sia qui solo per allenarmi e giocare ogni tanto... Lei mi deve trattare da giocatore, che io abbia 35 o 25 anni non le deve interessare. Se vede che posso giocare mi fa giocare sennò no. Non mi tratti come quello vecchio che deve tenere il gruppo.' Da quel momento feci sempre il titolare. Poi lui andò via trionfando e a Liverpool vinse anche lì".
Hai giocato fino a 41 anni. Qual è il segreto per allungare così tanto la carriera e mantenerla ad alti livelli?
"La fortuna è avere una genetica buona. Quando ce l'hai, gli infortuni sono pochi. Poi si parla di vita da professionista. Per me è una vita normale, in famiglia. Ora, tra l'altro, le società ti danno tutto, difficile tu vada al ristorante. Credo dipenda molto dalla testa. Se pensi sempre alla partita che verrà, hai sempre un obiettivo. Sai quello che fa bene e le cose che non fanno bene. Questo non vuol dire che se un giorno vuoi mangiare pasta con burro e salmone non puoi. Una volta puoi. Se mangi due pizze non succede niente, dipende, però, se tu continui. Bisogna sempre avere come obiettivo la partita di domenica".
Dopo il ritiro passi a fare il direttore sportivo. Cosa cambia quando sei dall'altra parte, dietro la scrivania?
"Io non volevo, avevo firmato con una società americana per giocare lì. Volevo portare la mia famiglia a fare questa esperienza, non era per soldi perché ti pagavano la metà. Venne, però, la società a propormi di fare il direttore sportivo. Da giocatore tutti i lunedì andavo a Madrid per fare il corso sia da agente FIFA sia da direttore sportivo. Infatti ho i due tesserini. Quando me lo proposero non accettai subito. Volevo andare in America. Ho capito, però, che era un'esperienza troppo bella. A me è sempre piaciuto trattare, fare contratti, avere a che fare con le banche. Quindi lo vedevo come un lavoro futuro. E' stato bello, ma ti cambia totalmente. Vedi le cose in maniera differente. Poi l'esser stato giocatore mi ha aiutato perché i presidenti mi conoscevano tutti. Non mi dovevano presentare".
Ti piacerebbe tornare a farlo?
"Se avessi 40 anni... Io faccio un lavoro bello ora, ma l'offerta la ascolterei".
Prima di lasciarti, Amedeo tu sei stato in Nazionale. hai disputato l'Europeo del '96. E' stato un ciclo di difensori straordinario. Quanto era difficile arrivare in Nazionale nella tua epoca? Che soddisfazione è per un giocatore partecipare a una manifestazione internazionale come un Europeo?
"Sacchi, credo, fu innovativo anche in questo. Molti arrivarono in Nazionale anche se avevano poche presenze in A o non tanti campionati alle spalle. Fino a quel momento, invece, arrivavi in azzurro solo dopo aver disputato diversi campionati. Sacchi mi conosceva fin dai tempi della Primavera. Lui mi portò con Allodi nella Primavera della Fiorentina. Arrivare in Nazionale a quei tempi, però, non era facile. Dovevi avere esperienza, la stampa era determinante. A EURO '96 ero l'unico della Roma. Bella esperienza".
Il tempo è volato, non resta che ringraziarti per gli aneddoti, per il tuo tempo e farti un in bocca al lupo. Grazie mille.
"Un piacere parlare di calcio. Ciao."
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