ESCLUSIVA | Almeyda si racconta: "Meglio il Derby di Roma o Milano? Quello della Capitale è impressionante"
Di Marco Deiana
Vecchia conoscenza del calcio italiano. Ha vestito le maglie di Lazio, Parma, Inter e Brescia, prima di tornare nella sua Argentina. Ha vinto un campionato italiano con la Lazio, una Supercoppa Italiana (sempre con la Lazio), tre Coppe Italia (due con la Lazio e una con il Parma), oltre alla Supercoppa Europea e la Coppa delle Coppe, sempre con la maglia biancoceleste. Centrocampista di qualità e quantità, che in tanti ricorderanno per la sua rete da centrocampo contro il Parma (vestiva la casacca laziale) beffano un certo Gigi Buffon. Parliamo di Matias Almeyda.
Ora allena in America, negli Stati Uniti. È seduto sulla panchina dei San José Earthquakes ed è legato da un contratto di altri due anni. Eppure nelle ultime settimane il suo nome è stato accostato con insistenza ad una panchina del Cruz Azul, in Messico, dove lui ha già avuto modo di allenare con ottimi risultati (il Club Deportivo Guadalajara).
La redazione spagnola di 90min ha avuto modo di parlarci in esclusiva. Tanti i temi trattati. Dal suo futuro a quello del connazionale Messi, passando per la sua esperienza in Serie A, i suoi derby di Milano e Roma e una piccola curiosità su Alvaro Recoba.
Hai avuto l'opportunità di allenare in Messico e in MLS. Quale è il campionato più difficile oggi?
"Difficile fare paragoni perché il campionato messicano ha una sua storia. Il campionato di MLS è diverso rispetto a dieci anni fa, ora è in piena crescita dal momento che vengono ingaggiati giovani dal Sud e Centro America e adesso è diventato un campionato che vende. L'anno scorso hanno venduto diversi giocatori in Europa. Tempo fa invece in MLS si trasferivano giocatori prossimi alla pensione: pagavano bene, erano tranquilli e nessuno dava fastidio. Ora quella parte di campionato sta cambiando. El Pity Martinez è venuto qui e ora è stato venduto, idem Miguel Almiron. Sebbene questa pandemia abbia rallentato un po' tutto, nessun giocatore è stato venduto per pochi soldi. I due tornei si sono svolti con una cura molto speciale: siamo stati testati ogni due giorni. Insomma, è un campionato che vuole crescere. A livello calcistico lo vedo più simile ai campionati europei perché sono tutti giocatori dinamici e fisicamente stanno molto bene".
Che calcio ha trovato quando sei arrivato in MLS? Come è stato il tuo adattamento come allenatore?
"È stata una sfida per me. Ho avuto la possibilità di andare in altri posti e ti posso assicurare che ho scelto quello che mi ha pagato meno, ma dietro c'era una sfida sportiva. Mi sono messo in gioco. L'80% dei giocatori che ho adesso sono quelli che nell'ultimo anno avevano vinto quattro partite. Volevo rispondere ad alcuni dubbi interi: come sono come allenatore? Come riuscirò a spiegarmi senza parlare la stessa lingua? Devo riuscire a trasmettere la mia passione per il calcio a ragazzi con sedici nazionalità diverse".
"A San José c'è solo un campo di allenamento, c'è un piccolo spogliatoio. È un dei club più poveri del campionato, quello che ha investito meno sui giocatori. Sportivamente lo prendo come un modo per crescere. Quando ho scelto di accettare la sfida ho spiegato che avevo accettato l'incarico per mettermi alla prova come allenatore".
Per chi non ha mai visto i San José Earthquakes di Almeyda, come gioca la tua squadra?
"Ho cambiato, anche se quello che chiamiamo 4-2-1-3 è rimasto. Gioco sempre con tre attaccanti, un trequartista e due centrocampisti, uno difensivo e uno più libero. Studio molto i miei avversari. Con me se sei pigro non giochi più. La preparazione fisica è importante nel calcio".
Pochi giorni fa Messi ha dichiarato che gli piacerebbe vivere negli Stati Uniti. Gli consiglieresti di giocare in MLS?
"Assolutamente sì. E gli direi di venire a San José. Gli Stati Uniti sono grandissimi e i fuoriclasse camminano tranquille in strada. Chi vuole vivere una vita godendosi quello che fa, sul serio, vivrà un altro stile di vita. Per lui, per i suoi figli, per sua moglie. Potrà camminare, andare in bicicletta, andare al supermercato. Penso che potrebbe essere un buon posto per lui, anche perché il campionato è competitivo, non è così facile come si pensa. Ci sono alcuni giocatori che ho portato dal Messico che pensavano di adattarsi subito, invece ci hanno messo un anno. Il campionato è molto sottovalutato ma cresce e i giocatori lo scelgono. Hai due mesi di vacanza. Quando inizia, inizia tutto e quando finisce devi staccare perché non ti permettono di allenarti. Quindi ti manca il ritmo alla ripresa, perché due mesi di stacco è un tempo lungo. Chi vuole vivere in modo normale ed essere una persona normale, sceglie questo posto".
Immagino che in Argentina tu abbia vissuto un'esperienza simile...
"Sì. Giocare e allenare il River Plate è fantastico. Sappiamo che metà Paese è tifoso del River e quindi ti riconoscono tutti: il fruttivendolo, il tassista. In più ho giocato anche per l'Argentina. Ho sempre sentito l'affetto dei tifosi e di tutte le persone, così come in Messico e in Italia. Io amo il calcio ma non mi piace la fama, non mi interessa, non lo considero bello, lo considero una schiavitù. Apprezzo il fatto di uscire a fare una passeggiata, andare in piazza con la mia famiglia. Qui vado in bicicletta come quando ero ragazzo e ogni tanto qualcuno mi saluta. È un'altra vita".
Parlare di fama mi fa venire in mente Diego Armando Maradona. Cosa ha provato quando hai saputo della sua morte?
"Molta tristezza. Ho avuto la possibilità di fare amicizia con Diego. Mi sento come se fosse una bugia, vedo qualcosa e mi sento come se non fosse mai morto. Se Diego avesse avuto la possibilità di vivere in questo Paese, avrebbe avuto pace e calma. Diego era molto prigioniero della sua fama, non aveva libertà. Conservo un grande ricordo di lui. Ho avuto la possibilità di incontrare il mio idolo, quello che ci ha fatto sognare. Ci sentiamo rappresentati da lui. Spero che sia in un posto dove abbia la pace di cui aveva bisogno".
Hai giocato i due principali Derby in Italia, quello di Milano e quello di Roma. Qual è il più bello?
"Quello di Roma è qualcosa di impressionante, tanto passionale. Alla Lazio in tre anni abbiamo quasi sempre battuto la Roma. In un anno ci siamo incrociati quattro volte e quattro volte li abbiamo battuti. I tre anni alla Lazio sono stati unici. Il Derby dell'Inter non è quello contro il Milan ma quello contro la Juventus. È il Derby Nazionale, ma in ogni caso non ha la passione del Derby della Capitale però è il più importante. È stato bello poterli giocare entrambi".
Credi che il campionato italiano possa riguadagnare il livello di quando eri un giocatore?
"La Serie A sta crescendo in questi ultimi due anni. C'è una realtà nel calcio mondiale che è quello che vede i più ricchi e potenti formare le squadre migliori. In Argentina sono Boca e River, in Spagna ci sono Barcellona, Atletico e Real Madrid, in Germania il Bayern Monaco e il Borussia Dortmund. In Inghilterra e in Italia la stessa cosa. La differenza rispetto a MLS o Liga MX (campionato messicano, ndr) è che una volta che sei entrato nei playoff, sei uguale agli altri. Il formato dei tornei fa sì che i potenti facciano molta differenza".
Come vedresti Leo Messi giocare in Italia?
"Penso che in Italia lo avrebbero colpito molto di più. Il calcio italiano è duro, anche se non ai livelli tra il 1990 e il 2005. Ma è pur sempre il campionato italiano. I difensori in ogni scontro ti fanno saltare in aria. Penso che sentirebbe molto la parte fisica ma potrebbe fare anche lì la differenza, perché gli anche in Italia i difensori sbagliano".
Potresti mettere un undici ideale dei giocatori con cui ha giocato nella stessa squadra?
"In porta metterei uno tra Toldo, Burgos o Roa. In difesa spazio a Zanetti, Nesta, Mihajlovic e Chamot. In mezzo io insieme a Verona. Recoba sulla trequarti e il tridente composto da Batistuta al centro, Ortega a destra e Kily Gonzalez a sinistra".
Hai un grande legame con il Chino Recoba, vero?
"Sì. Poteva diventare il miglior calciatore del mondo. Ma non voleva diventarlo".