Ostili o comunque tiepidi: Fiorentina-Italia, storia di un rapporto tormentato
Quello tra un popolo e la sua Nazionale è un rapporto che supera il calcio, infilandosi nel solco di questioni sociali, culturali e folkloristiche: basti pensare, del resto, al gran numero di tifosi che si avvicinano al pallone solo in corrispondenza coi grandi tornei, Mondiali ed Europei, pronti a riversarsi in piazza e a colorare le strade di bandiere, senza dunque farne una questione prettamente sportiva. Un coinvolgimento che, tra le righe, offre anche rumorose eccezioni e capovolgimenti di fronte persino sorprendenti agli occhi di chi osserva da fuori: esistono cioè frange di appassionati e di sportivi che, di fronte alla maglia dell'Italia, storcono il naso, si raffreddano o arrivano persino a viverne come poco auspicabile il successo.
Realtà, questa, che trova a Firenze una sua sede prioritaria, un vero calderone di umori contrastanti e talvolta avversi ai colori azzurri, nella buona e nella cattiva sorte. Ma come si può spiegare un simile sentimento, un'avversione solo parzialmente scalfita dagli anni che passano e dalle generazioni che si susseguono? Esistono, parlando del caso fiorentino, tracce disseminate nel tempo che riescono a superare le circostanze e i singoli momenti del calcio: una distanza rivendicata dal "sistema", percepito come nemico e distante, una questione dunque di rapporto tra la città e le istituzioni, tra la città e il potere.
L'idea è che la Federazione sia stata nel corso dei decenni un vero ostacolo per le sorti della Fiorentina e che, politicamente, i bastoni tra le ruote dell'alto siano stati all'ordine del giorno, tra arbitraggi penalizzanti, partite organizzate in sedi ritenute poco idonee (la finale di Coppa UEFA '90 giocata sul campo di Avellino, visto come un feudo del tifo bianconero) e una scarsa attenzione globale per una piazza vissuta colpevolmente come marginale e secondaria rispetto ad altre realtà. Nel corso dei decenni, dunque, un certo sentimento di rivalsa e di ribellione è maturato, col fallimento dell'era Cecchi Gori e Calciopoli a rincarare la dose e a fomentare ulteriormente la rabbia di un popolo. Un discorso "contro", dunque, come mera intenzione di smarcarsi da chi viene percepito come nemico: l'Italia, in questo contesto, non sarebbe vista come la squadra degli italiani ma come la rappresentativa di quelle istituzioni che, negli anni, avrebbero umiliato e ferito Firenze.
D'altro canto esiste un'altra questione altrettanto potente in questi suoi effetti: tanti elementi di forza della Nazionale provengono da club certo non amici nella mente del tifo viola, manca dunque la capacità di svincolare quel che accade durante la stagione rispetto al momento di coesione e di unione che dovrebbe rappresentare l'Italia (e che per molti effettivamente rappresenta). Un discorso che si lega soprattutto all'idea di vedere tanti protagonisti che, nel corso degli anni, "tradiscono" il colore viola per approdare in altri club: un affronto che impedisce a un discreto numero di tifosi di riconoscersi ancora in quei giocatori, ancor prima in quegli uomini, e di esultare per le loro gesta.
Ultimo, ma non ultimo, un aspetto che forse appare il meno biasimevole e criticabile: il troppo amore per i colori viola spinge a provare sentimenti più tiepidi per quelli azzurri, come se subentrasse l'impressione di "tradire" il vero amore calcistico, esultando o soffrendo per qualcun altro, un'amante clandestina che rischierebbe di rovinare il rapporto più centrale e duraturo.