I magnifici di 90min: Francesco Totti, un dono
C'è una moda su Twitter da qualche tempo che si potrebbe riassumere con il termine "StopThat".
Si aprono account monotematici su un solo calciatore, fotografandone in microvideo, GIF e altri contenuti visuali i gesti più eleganti, belli, intriganti.
Uno dei primi è stato quello su Zidane, poi ne sono arrivati altri, come quello su Mahrez e su Maradona. Ce n'è anche uno più "idealista", sul calcio: una specie di summa di tutte quelle cose che fanno meravigliarsi guardando una partita di calcio.
Poi, fra gli altri, ce n'è uno su Totti.
Di tweet ce ne sono diversi. Aperture alla cieca, tiri, punizioni, dribbling. Raccontano il campione romano in silenzio, senza commento scritto, solo attraverso le immagini.
Ci sono frammenti di attimi dove non c'è un vero inizio o una vera fine, sono più come delle smorfie su un volto che possono vedere solo le persone che ti conoscono meglio.
Quei particolari che da un lato ti fanno innamorare ma che in pochi notano.
Uno di questi è un dribbling a centrocampo, inquadrato dal campo e che risale alla stagione 00/01.
Totti prima evita Davids, poi salta Zidane e si arrende al ritorno dell'olandese.
Non è tanto la difficoltà del dribbling a meravigliare (anche se, intendiamoci, è veramente un bel dribbling) quanto il carico simbolico che si porta dietro.
In quella fase storica, la Roma di Totti ha forse raggiunto il massimo potenziale che toccherà con il 10 di Porta Metronia in rosa. È soprattutto la Juventus a contendere il tricolore in quella stagione: Davids e Zidane sono fra i calciatori più forti non solo della Vecchia Signora, ma dell'intero campionato di Serie A (e oltre) e sono la sintesi perfetta rispettivamente della forza e il talento, la grinta e la poesia, l'energia e la visione. Davids e Zidane sono due metà che unite restituiscono il senso e la bellezza del calcio.
Totti si muove fra i due come una specie di mortale fra gli dei. Ha una movenza leggera, fluida, che
sembra sostenere tutto il peso dei colori che indossa. Quando si arrende a Davids e cade per terra è un po' Perseo contro il Minotauro e un po' Fidippide, che si ferma quando lo scopo è raggiunto e le energie vengono meno.
La storia di Totti in fondo è così. La sua è stata una ricorsa alla vittoria che raramente si tradurrà in un arrivo al traguardo, con un titolo messo in bacheca e il riconoscimento anche dei risultati del suo infinito talento.
Questo perché Totti non è stato e non sarà mai solo un calciatore, ma qualcosa di più.
Campione, bandiera, leggenda, fenomeno, unico: sono tanti gli aggettivi che si sono affastellati negli editoriali e nelle telecronache di venticinque anni (25!) a tinte giallorosse e non solo, in una carriera che ha tratteggiato la crescita di una società e i cambiamenti di un movimento intero.
Totti è stato un ponte fra tutte le tifoserie, odiato e temuto, rispettato e invidiato, con quella sua ritrosia a pensare a qualcosa di diverso da offrire la propria vita calcistica alla sua squadra del cuore e alla sua città. Il suo talento è stato qualcosa di nazionalpopolare, osteggiato in campionato e idolatrato in azzurro, protetto dalla stampa e identificato come uno dei più preziosi fra i figli che il calcio italiano avesse partorito.
Forse solo Roberto Baggio è stato più amato e discusso di lui, con la differenza che, appunto, le due storie si sviluppano su trame decisamente antitetiche: vagabondo e legato solo alla nazionale il primo, devoto al proprio club e incidentalmente prestato all'Italia il secondo, con effetti radicalmente diversi se si pensa anche alle carriere che i due vivranno con l'Italia.
Si è spesso detto che Totti avrebbe meritato il Pallone d'Oro: nel 2001 arriverà quinto (lo vincerà Michael Owen) e quello sarà il suo piazzamento migliore su cinque candidature complessive. In compenso, nel 2006/2007 si aggiudicherà la Scarpa d'Oro, un premio forse più in linea con il suo modo di giocare, concreto e mai lasciato al caso.
Basterebbe questo a tratteggiarne un ritratto abbastanza completo... almeno in superficie.
Perché sotto la superficie, il suo è stato un percorso decisamente più articolato.
Speravo de morì prima è uscita su Sky nel 2021.
Presentata come una serie evento, mette nel mirino gli ultimi anni di carriera di Totti, quelli che coincidono con il ritorno nella capitale di Luciano Spalletti.
Il tecnico toscano, già allenatore della Roma fra il 2005 e il 2009, nella sua precedente esperienza costruì attorno al suo 10 un modulo d'attacco estremamente avveniristico: il 4-2-3-1, in cui il Pupone giocherà punta avanzata e che gioverà moltissimo alla sua carriera. Totti ne parlerà sempre bene fino a quando, nella sua seconda esperienza romanista, si troverà a doversi confrontare con la necessità di un ricambio generazionale portato avanti proprio dall'allenatore di Certaldo.
È su questa dualità che "Speravo de morì prima" costruisce il suo filo conduttore, ponendo l'attenzione di tutti i suoi episodi sul percorso che condurrà Totti a dire addio alla maglia.
Interpretato da Pietro Castellito, il capitano giallorosso viene proposto in una veste umana e umanizzante, lasciando però poco spazio al racconto del suo essere uomo di campo. Il focus della narrazione è il commiato al gioco del calcio che dev'essere però alle sue condizioni, tenendo conto del rapporto con una città e un popolo che non lo dimenticheranno mai. Sullo sfondo, rimane il concetto di tempo osservato dal punto di vista del campione, topos ricorrente in molte carriere di giocatori epocali.
Il momento del ritiro di Totti viene innalzato, analizzato e spettacolarizzato, dando seguito e linfa a tutte le dietrologie, i pettegolezzi e anche lo spirito popolare che tenta di descriverne genesi e climax, lasciando un sottotesto di rimpianto.
Non sappiamo quanto ci fosse bisogno di raccontare Totti così: forse è un po' il tentativo di esorcizzare un dolore di un popolo di tifosi che ancora non si capacita del commiato del proprio miglior giocatore.
Il Totti giocatore, però, ne esce quasi banalizzato, considerato quanto la sua storia abbia comunque segnato il mondo del calcio a dispetto dell'inevitabile declino e conclusione dell'attività agonistica.
È sempre stato, questo, un problema nel "raccontare" il Totti giocatore: espressione più vivida di una società e di una tifoseria, nel corso della sua carriera il 10 giallorosso è stato proposto come il giocatore che ha rinunciato al Milan e al Real Madrid (con relativi trofei e denari) per amore della maglia. È stato bandiera e per questo mantenendo una patina di purezza che lo hanno di fatto cristallizzato nella figura del capitano ideale, il ragazzo del quartiere cresciuto con il giallorosso addosso, e che grazie al suo talento arriva sul tetto del mondo.
Questa sua ascesa, che lo pone ai livelli di una divinità pagana per molti, si trasla in un eccesso di spettacolarizzazione che probabilmente non apprezza neanche, quando i meccanismi dello show-biz lo portano a incontrare la (futura ex) moglie Ilary Blasi, proprio quando il luogo comune "Calciatore+velina" inaugurato da Bobo Vieri ed Elisabetta Canalis è nel suo hype.
Una metafora di quanto questa narrazione "desportizzante" diventi a un certo punto predominante è il suo matrimonio, che verrà trasmesso in diretta su Sky e i cui diritti verranno devoluti in beneficenza: una specie di gigantesco show che lo esalta come figura di tendenza, plastificandone quasi il ruolo sportivo che rimane in secondo piano. Un'analogia che lo avvicina a David Beckham e all'aura glamour che ne scandiranno i tempi della carriera: come lo Spice Boy, di Totti si racconteranno gol e gossip, nascite in famiglie e assist, espulsioni e vacanze al mare insieme alla famiglia, diluendo quanto si sarebbe potuto dire sulla sua esperienza in campo.
Ad esempio, molto ci sarebbe ancora da riflettere sull'impatto rivoluzionario che ha avuto il suo modo di interpretare il ruolo di attaccante, una lettura che influenzerà una generazione intera, o di come nell'arco delle stagioni il suo calcio sia stato anticipatore, aprendo la strada a quei profili che sapranno coniugare efficacemente potenza fisica e talento.
Totti è stato infatti un giocatore estremamente forte, oltre che tecnico. Capello, parlando di Del Piero, disse che "Totti in più aveva il tiro", indicando nella potenza un valore decisivo nel fargli preferire il giallorosso al bianconero.
È contemporaneamente potente e fatato il pallonetto che illumina la notte di San Siro nell'ottobre del 2005. Accompagnati dal racconto del mai dimenticato Alberto D'Aguanno, rivedere Totti che prende palla a centrocampo, si avvicina all'area nerazzurra e calcia in maniera arrogante non appena vede Julio Cesar fuori dai pali è poesia pura.
Sono gli anni in cui Totti guida anche la nazionale, con cui si aggiudicherà l'unico titolo internazionale di squadra della sua carriera.
In quel contesto Lippi lo sfrutterà al massimo, evidenziandone il valore assoluto sotto tutti i punti di vista: rifinitore, regista offensivo, finalizzatore. Ognuno di queste funzioni in campo Totti le interpreterà con prepotenza e convinzione, mostrando l'essenza del suo piacere a giocare e confermarsi più bravo di tutti.
Una prepotenza che a distanza di anni sembra ancor più vivida, e che guardando Totti restituisce l'esperienza che si vive osservando un ragazzino che nel campetto dietro casa mette in mostra tutto il suo repertorio per confermare la sua superiorità.
Questa strafottenza positiva lo porterà a segnare gol tecnicamente difficilissimi.
Ad esempio: dal 2000 al 2006 quanto tempo c'è, calcisticamente parlando? 100, 200 partite?
Totti sembra vivere ognuna di esse come un passo dopo l'altro per diventare ancor più grande, mettendo in mostra la ricerca continua della perfezione del gesto estemporaneo, proprio come i ragazzini che tentano e ritentano la giocata memorabile.
Il 10 dicembre del 2000 all'Olimpico ad esempio, quando Cafu crossa e lui arriva di corsa in area, non sappiamo se in testa abbia già l'idea di imprimere negli occhi di chi guarda la magnificenza di qualcosa che sarebbe difficile se non impossibile per molti.
Eppure, mentre la palla spiove, Totti ha già messo nelle gambe tutta la forza di cui dispone, e in qualche frazione di secondo riesce ad assoggettare ai suoi desideri tempo e spazio.
Il risultato è qualcosa di grandioso, spettacolare, indimenticabile, ma non unico.
Perché il tiro che sprigiona è sì bellissimo, ma non nella sua accezione più complessa: Totti calcia da pochi metri dell'area piccola, la traccia è liscia e basta impattare nel modo giusto la palla per poter generare questo colpo da maestro.
Lui però vuole lasciare qualcosa di più, forse vuole superarsi anche in quel frangente.
E allora, sei anni dopo, mentre a Marassi la Roma sta macinando la Sampdoria, Cafu intanto è andato a giocarsi le Champions League a Milano e dalla corsia destra ora i cross arrivano da Cassetti, mentre la Juventus è in Serie B e la Roma legittimamente può aspirare a tornare a vincere il tricolore, il Totti "mondiale" decide che sì, può alzare il coefficiente di difficoltà, e quello stesso tiro all'Udinese va ripetuto ma in posizione più defilata, con una traccia ancor meno pulita e una traiettoria praticamente impossibile da definire a priori.
Probabilmente Sala ritarda ad accorciare, ma guardate: quanto spazio c'è fra Berti e il palo? Quanto è remota la possibilità che Totti impatti la palla abbastanza bene da darle quel leggero effetto che le permette di tagliare l'aria e curvare la sua direzione?
Eppure, lui ce la fa. E lo fa in una maniera che è più vicina al sogno del bambino che non al gesto del calciatore affermato.
Potremo stare ore a discutere sulla balistica che ha ridefinito Francesco Totti, o la spettacolarità dei suoi oltre 300 gol in carriera.
Ma non servirebbe, anche perché stiamo parlando di qualcosa che tocca più le corde della bellezza e meno della scienza.
Ripensare a Totti e ricordarlo, oggi che fa il procuratore (mentre cominciano a vedersi i primi risultati dei suoi assistiti), è un esercizio che chi ama il calcio compie in maniera quasi automatica e personale. Di lui, dei suoi colpi che illuminavano i rari posticipi della domenica sera, delle infinite sfide scudetto dove la Roma era comunque la terza incomoda, si sente la nostalgia, così come dei suoi silenzi (tanti) e le sue sentenze (pronunciate sempre in maniera pacata ma decisa), forte forse anche di quella polemica strisciante che accompagnava le sue panchine e che sapeva poteva scatenare con uno sguardo.
Era un calcio diverso, quello dove c'era Totti. Un calcio più vicino a quello che ti fa innamorare di questo sport. Certo, non solo grazie a Totti. Ma ecco, Francesco, il Pupone, aiutava a renderlo così.
Manchi, Pupone.