I Magnifici di 90min: George Weah, l'eredità di un Re
Era assolato, quel pomeriggio del 9 maggio a Torino del 1999. Si giocava uno Juventus-Milan, una di quelle giornate di Serie A buona per gli annali, con in campo l'arbitro Cesari a fischiare e Franco Nesti ai microfoni della RAI a raccontare una sfida scudetto che, strano per il decennio in corso, non vedeva più in palio lo scudetto.
Al 64' dalla destra uno spiovente di Thomas Helveg arriva al limite dell'area. Lo ribatte Pessotto che disturbato dalla pressione di Bierhoff, perde il controllo della sfera. Il rimpallo favorisce l'inserimento da sinistra di Zvonimir Boban, che dieci minuti prima era subentrato a Leonardo. Il croato si porta avanti la palla di testa tagliando fuori Bierhoff, mentre Tudor esce dall'area nel tentativo di contenerlo. Il 10 rossonero vede il movimento alle spalle di Montero di Weah, che chiama la palla: per servirlo, fa partire un pallonetto che scavalca il difensore uruguaiano e arriva al 9 milanista.
Weah controlla di petto, tranquillo, perché ha almeno due metri di vantaggio e comunque lo juventino sta chiamando il fuorigioco, inesistente. Fa cadere la sfera, la guarda, vede Peruzzi che accenna l'uscita, fa partire una stoccata sul palo del portiere, e fa gol.
Fermiamo un attimo qui il racconto: se siete assidui dei ricordi e del calcio nostalgico di fine millennio, non c'è bisogno di ricordare quale sia la partita, ne che cosa succeda dopo che King George batte Peruzzi. Sapete già che Weah ha già segnato e il 2 a 0 non si schioderà più dal tabellino.
Soprattutto, avete bene in testa il festeggiamento di quel gol: perché a volte capita che nel campo di calcio interi poemi si scompongano in frammenti visuali indimenticabili, immagini che rimangono nell'iconografia di un torneo, di una società o di un uomo. E lo Juventus - Milan che si gioca il 9 maggio del 1999 allo Stadio Delle Alpi fa parte proprio di questa categoria.
Perché Weah, quel giorno, sceglie di festeggiare in un modo che entra nella leggenda: scatta verso destra, poi si ricorda che alle sue spalle ci sono i tifosi ospiti, i suoi tifosi. Allora si gira, si ferma, e comincia a correre verso quello spicchio di campo voltato verso il centro e chiamando a sé Boban che nel frattempo lo sta rincorrendo.
A quel punto fa una cosa piccolissima, una roba che non si sa quanti farebbero in quel momento, ma lui la fa perché lui, Weah, sta tutto in quel gesto lì: tende la mano a Boban. Il 10 gliela prende, sembra un po' riluttante perché i due arti si congiungono solo dalle dita, dall'anulare e dal mignolo, prima che la manona del liberiano si serri forte su quella del croato. Sono mani che si stringono, forti, mentre i due scattano verso i tifosi al sole, urlanti, perché quello è il 2 a 0 e sentono che forse, in lontananza, la Lazio di Eriksson - che nel mentre sta vincendo con il Bologna a Roma - non è così tanto imprendibile.
Corrono Weah e Boban, e i fotografi li immortalano così, come stretti in un contatto che diventa eterno, ritratto di un'epoca e di un calcio che stava entrando nel nuovo millennio.
Weah che tiene per mano Boban è il Weah che a Controcampo afferma di chiamare Baggio "magna magna" e che prepara una torta per i suoi ex compagni due mesi dopo che è andato al Chelsea. È il calciatore che ammette di tifare Juventus ma che segna per il Milan perché è il suo lavoro.
È l'attore che diventa gergo, nello spot di un deodorante su cui la Gialappa's Band ha campato di rendita per qualche stagione di Mai dire Gol.
Un personaggio che piace per la sua bontà e affabilità, e non solo per il fatto che sia incidentalmente uno dei bomber più interessanti che il calcio abbia offerto negli anni '90. Si direbbe genuino come il suo calcio, dove le finte sono semplici e tutto si riduce ad alcuni semplici e basilari caratteristiche, come la velocità o il senso del gol.
Aggiungiamoci anche una storia che già in quella fase della sua vita è speciale.
Weah nasce nel 1966 a Monrovia in una bidonville e diventa calciatore epocale, primo (e unico, per ora) calciatore africano a vincere il Pallone d'Oro. Ritiratosi, sceglie di intraprendere il percorso politico. Una scelta che lo porta a 52 anni a diventare presidente del suo Paese.
Per questa sua vocazione all'altruismo, Weah assume i contorni di calciatore archetipale, come se fosse la matrice da cui attingeranno tutti quelli che verranno dopo.
C'è un po' di Weah in Drogba, Asamoah Gyan, Masinga e in Eto'o, tanto per citare alcuni fra i più famosi calciatori africani, come se il liberiano avesse condensato in otto anni (i più splendenti della sua carriera, coincidenti con l'arrivo al Milan) il teorema di come dovesse essere un attaccante che è anche simbolo della sua terra e del continente di provenienza.
Con 203 gol in 458 presenze (in Italia 46/114), Weah ha segnato in Francia, Italia e Inghilterra, oltre che in Liberia, Costa D'Avorio e Camerun (dove muove i primi passi) e negli Emirati Arabi. Si è ritirato a 37 anni, seguendo una parabola convenzionale, pur non essendolo fino in fondo.
Esploso nel PSG di Lama e Ginola, arriva al Milan nel 1995 perché vuole fortissimamente il rossonero (Braida racconterà anni dopo che rinuncia anche a 1 miliardo dal PSG per forzare il trasferimento) per provare a vincere la Champions League, dove in quegli anni la società di Silvio Berlusconi spadroneggia a stagioni alterne.
Il giochino gli riesce a metà, complici il crescere della Juventus di Lippi e una normalizzazione della società rossonera che, a dispetto dei nomi che compongono la rosa, fa in tempo a vincere uno scudetto prima di vivere un paio di stagioni abbastanza mediocri.
In uno scenario tutto sommato di riposizione, Weah diventa una specie di capisaldo dei rossoneri, non così rappresentativo da essere equiparato al gruppo italiano di Baresi, Maldini, Costacurta e Albertini, ma comunque rispettato dall'ambiente che impara a conoscerne le qualità anche umane.
Per certi versi, diventa un senatore dello spogliatoio, per quanto forse una personalità come la sua non riuscirà mai a essere contenuta in una sola anima, una sola maglia, un solo luogo.
Nel suo periodo meneghino, gli capita di fare coppia con giocatori molto diversi fra loro: da Savićević, Dugarry e Simone, fino ad arrivare a Baggio, Kluivert, Bierhoff abdicando solo all'ucraino Shevchenko, vivendo così sulla sua pelle la fase di mutazione della società che getterà le basi dei successi di Ancelotti, il quale arriverà a Milanello già nel nuovo millennio.
Nelle sue prime stagioni non scende mai sotto i dieci gol, mentre la quarta, quella con Zaccheroni in panchina, va a rete "solo" 9 volte, complice anche un modulo che non lo colloca al centro del reparto offensivo.
Se del suo hype emotivo abbiamo già parlato, certamente il momento calcisticamente più memorabile è il famoso coast to coast contro il Verona, che segnerà l'immaginario di tutti gli aspiranti attaccanti di fama mondiale da lì in avanti nonché i sogni più ispirati del telecronista Carlo Pellegatti.
Una sintesi esemplare dello strapotere fisico e tecnico che sarà sempre valore aggiunto di Weah, che suo malgrado assolverà il ruolo di scala di valori per capire se uno fosse sopra la media oppure no. Da quel giorno a San Siro, infatti, diventerà normale dire, vedendo un giocatore partire palla al piede e farsi il campo di corsa, Sembra Weah!
Non sarà solo il gol al Verona a farlo ergere a riferimento, perché Weah siglerà tanti gol diversi, tutti complessi nel loro essere essenzialmente frutto di un'innata vocazione alla potenza inarrestabile, senza fronzoli ma decisamente votato alla concretezza.
Il suo passo sarà spettacolare a modo suo: non si distinguerà per i dribbling di un brasiliano o il tocco vellutato di un funambolo, non mostrerà mai l'abilità di Totti nei pallonetti o i colpi di testa imperiosi di un Trezeguet. Eppure, tutto ciò che fa lo fa in un modo estremamente efficace, non morbido ma deciso, denso.
Il gol contro la Lazio, sempre di quella stagione, è un esempio di come tutta l'esplosività di Weah possa condensarsi in una porzione di campo decisamente più corta di quella vista contro il Verona.
I difensori e il campo sembrano diventare un tutt'uno, con lui che ricevuta la palla non deve far altro che buttare giù tutto ciò che trova, insinuandosi negli spazi quando l'ostacolo è eccessivo anche per lui.
Una fonte di ispirazione che dipinge anche una sorta di profilo ideale d'attaccante, ancestrale, classico nel richiamo al centravanti grosso e abile nel gioco aereo, ma anche molto proiettato al futuro per la velocità e il tocco di palla, che non possono più prescindere.
Si può dire che sia questa la legacy di Weah?
Il dimostrare che un solo giocatore può raccogliere tutta la velocità, agilità ed efficenza di cui il gioco sembra aver bisogno?
Non sappiamo se lui, Re George come lo chiameranno i suoi ammiratori, volesse sul serio essere messo così tanto su un piedistallo.
È un fatto però che certe movenze, certe gestualità che ne connotavano la presenza in campo siano sedimentate nella mente di chi il calcio lo guardava, diventando gesti che si son fatti familiari e hanno ispirato gli altri: tanto per dirne, la sua voracità sul campo potrebbe richiamare la veronica di Zidane, che prima del francese sicuramente qualcuno aveva già provato su un campo di calcio, ma nessuno l'aveva interpretata come lui.
Alcune delle cose che faceva Weah sul campo si possono rivedere in campioni che sono nati quando lui già calcava i campi di calcio, e che magari le hanno imparate proprio guardando lui. Prendendo il gol alla Lazio come modello, non si può non notare la somiglianza con un'altra marcatura ancora ben stampata nella mente dei tifosi milanisti per bellezza e agilità: quella di Pato al Barcellona, siglata sedici anni dopo.
Veloce "come Weah", si direbbe. E se ci mettessimo a scavare, chissà quanti altri esempi si troverebbero.
Eppure, nonostante già allora si percepisse di essere in presenza di qualcosa di non convenzionale, la sua storia italiana, il cuore della sua carriera, si chiuderà in modo malinconico. Lasciato andare a gennaio del 2000 al Chelsea dopo qualche screzio con Zaccheroni (a sua volta licenziato da Berlusconi quell'anno, che mai lo aveva avuto in simpatia), il suo sarà un commiato a metà fra il rancoroso e l'addolorato.
Galliani ne impedirà il trasferimento alla Roma dove allena l'ex Capello, uno sliding doors che ci ha impedito di goderci Weah ancora in Italia ma soprattutto, forse, ne ha accelerato il ritiro, dato che da quella cessione comincerà un lento girovagare che lo porterà dal Chelsea al Manchester City, per fare ancora un passaggio al Marsiglia e finire all'Al-Jazira.
A ripensarci oggi, mentre tenta di salvare la sua Liberia e sui campi continua a scorrazzare il figlio Timothy Weah, del suo passaggio rimane un senso di grande nostalgia e questo piccolo rimpianto, seppur addolcito da questo presente così coerente con la sua storia.
Perché alla fine Weah è tutto lì, nel gesto di tendere una mano e guidare qualcuno verso la felicità. Lo ha fatto con Boban e simbolicamente con tutto il popolo milanista, lo ha fatto con tutti gli amanti del calcio e oggi tenta di farlo con il suo popolo in qualità di presidente.
E come i difensori che provavano a marcarlo, non si può non fermarsi un attimo a crederci che ce la possa fare: si sa che quando parte di corsa, palla al piede, Weah è difficile fermarlo.
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