I magnifici di 90min: Raúl, blanco nell'anima
"Madridismo è giocare al calcio in un modo bellissimo. Non si tratta di vincere, ma di giocare con stile e onore. È qualcosa che un madridista richiede al club: una vittoria noiosa per 1-0 non ne vale la pena. Preferisci perdere la partita."
- Anonimo
Il 14 settembre 1997 al Bernabeu va in scena Real Madrid - Real Sociedad. Il risultato è instradato già al 28' del primo tempo, con Davor Šuker che ha siglato la prima rete stagionale.
Nel secondo tempo, al 55', Raúl González Blanco, che in quella partita Jupp Heynckes ha schierato alle spalle del croato e di Pedrag Mijatović, parte palla al piede verso la porta al centro del campo. Prova l'imbucata alla sua sinistra, tagliando fuori la difesa alta della squadra di San Sebastián. Il passaggio però è un po' liftato, leggerino, di esterno sinistro ma forse un po' troppo morbido. Pikabea, che sta correndo all'indietro lo intercetta alzandolo leggermente e facendolo rimbalzare su Loren, che stava provando a chiuderlo. Il pallone carambola e torna nelle disponibilità del 20enne spagnolo.
Raúl in quel momento potrebbe scegliere di fare cose diverse. Potrebbe stoppare la palla, ma è un pelo più avanti per far sì che il tutto sia agevole. Potrebbe fermarsi, ma forse si sbilancerebbe e a quel punto il compagno finirebbe in fuorigioco. Potrebbe continuare a correre in avanti, rallentare e imprecare in maniera teatrale, lasciando spazio e metri ai due centrali baschi per riprendersi la sfera e far ripartire l'azione.
E invece, Raúl fa una cosa da Raúl. Se la porta in avanti di tacco calciandola da dietro, in corsa, senza rallentare di un millimetro. Ne esce fuori un pallonetto che non sembra neanche un pallonetto, spiovente, che gli recapita il pallone esattamente tre metri più avanti, proprio nello spazio che sarebbe riuscito a riempire con quella velocità. Il pallone cade e lui fa in tempo a toccarla di punta, pochissimo, quasi una carezza, quel tanto che basta per allentarne il rimbalzo. Alla sua sinistra Mijatović, che stava aggredendo lo spazio, si ferma. Stava correndo ma quando succede il tutto non riesce a non fermarsi e guardare mentre Raúl fa alzare un po' la palla e fa partire un tiro talmente assurdo che esce pure fuori dall'inquadratura della televisione (che nel frattempo ha zoomato su di lui), mentre Juan Gómez prova a fare la diagonale e allungare la gamba e fermarlo (non riuscendoci, of course) e Alberto López salta inutilmente perché la palla ha già deciso che si conficcherà sotto la traversa, in quello spazio che sembra gigantesco e sta fra il legno e la mano del portiere, ma in realtà è minuscolo.
Quanto dura il tutto? Tre secondi? Due? E anche se fossero quattro, basterebbero a contenere l'estro di uno dei giocatori più belli da veder giocare che il ventesimo secolo abbia visto solcare un campo da calcio?
Raúl, di professione madridista, è stato anche forse l'ultimo erede di un certo modo di vestire la camiseta blanca. Una dedizione regale, autarchica e geniale, ma allo stesso tempo votata a un calcio ricco di cerimoniali e simbolismi come dovrebbe essere la corte di un re.
E se il Real Madrid del '900 è stato più che un club una casata reale guidata da sovrani in grado di dominare l'Europa del calcio, allora Raúl non può prescindere dall'essere annoverato fra quanti quella casata l'hanno degnamente rappresentata, non sentendo il peso di una corona che schiaccerebbe chiunque.
Mancino naturale ma abile a calciare di destro, gran colpitore di testa, Raúl era un attaccante poliedrico che nasce seconda punta ma che che ha saputo districarsi anche nel ruolo di esterno a sinistra e trequartista. Si dice che Alex Ferguson lo considerasse il calciatore più forte d'Europa negli anni '90 per la sua completezza: Raúl infatti era in grado di segnare e far segnare, senza particolari differenze.
Nato nell'Atletico Madrid ma lasciato andare dopo la "particolare" gestione del presidente Jesùs Gil, viene tesserato dal Real Madrid di cui scala progressivamente tutte le selezioni. Debutta nel 1994 nella squadra maggiore, rimanendoci per sedici stagioni e segnando 323 gol in 741 presenze complessive fra Liga e Coppe.
Sarà capocannoniere in campionato e miglior marcatore della Champions League (fino a quando sarà superato da Cristiano): nonostante questo, nell'epoca dei Galacticos risulterà il più terreno dei fenomeni, lontano dai fasti degli acquisti di Figo e Ronaldo, dalla grandeur di Zidane o dal glamour di Beckham.
Nonostante fosse speciale, Raúl lì in mezzo veniva quasi dato per scontato, pur non essendolo affatto.
Vincerà in Europa e nel mondo (3 UCL, 2 Coppe Intercontinentali), sarà per cinque stagioni consecutive miglior calciatore di Spagna, ma non vincerà mai il Pallone d'Oro.
Soprattutto, vivrà la sua carriera come una missione a metà fra l'esempio e la ricerca della perfezione: non sarà mai espulso in carriera (soltanto 19 ammonizione in carriera), e non si sottrarrà mai nel rappresentare il proprio Paese in nazionale, dove collezionerà 102 presenze e 44 reti.
Eppure, perché sì, c'è un eppure, tutto ciò non basterà a confezionare un lieto fine.
La storia di Raúl con il Real, una storia che sembrava non poter finire, si concluderà quando lo spagnolo avrà 32 anni, quando un trequartista può essere ancora decisivo. La causa è una rivoluzione pachidermica voluta dal neo rieletto Florentino Pérez, che sceglierà di rilanciare il Real con gli acquisti di Kakà e soprattutto di Cristiano Ronaldo.
Raúl verrà ceduto nell'estate del 2010, dopo un anno in cui seppe dir di no al portoghese che premeva per avere il suo numero 7, e per una stagione dovette arrendersi a un rebranding che lo portò a diventare CR9, ma che dovette necessariamente cominciare a fare i conti con una titolarità non più garantita. I ben informati raccontano che Mourinho (arrivato da Campione d'Europa dopo il triplete con l'Inter) gli avesse chiesto di restare, ma l'anno passato in panchina con Pellegrini forse aveva segnato il suo orgoglio, chissà.
Un commiato che è parte del racconto di un calcio che non sa proteggere i simboli e le bandiere, e che viene seguito da una scelta piuttosto pittoresco per un calciatore che, si presume, avrebbe potuto andare veramente dappertutto.
Scegliere di giocare allo Schalke04, squadra di Gelsenkirchen i cui calciatori e tifosi sono soprannominati Die Knappen, i minatori, sembra infatti un ossimoro per un calciatore che del suo essere regale, in campo e fuori, farà un marchio di fabbrica distintivo e inappuntabile.
Eppure è proprio lì che deciderà di andare, in BundesLiga, su suggerimento del suo ex compagno Christoph Metzelder: questo nonostante sul tavolo avesse anche offerte più sostanziose (pare che avesse un debole per la Roma e per Francesco Totti, e chissà cosa sarebbe stato nella capitale se due supernova di questo valore si fossero trovate, insieme).
Raúl gestiva il pallone come se fosse un'estensione del proprio corpo, e anche fra i tedeschi continuerà ad avere quella naturalità di trasformare una situazione qualsiasi in un momento irripetibile, come se sapesse trovare solo lui la straordinarietà nascosta nelle pieghe del tempo.
Tipo quel 13 agosto del 2011, quando contro il Colonia gioca da fantasista dietro l'ex Milan Klaas-Jan Huntelaar.
Morávek imbuca al volo a centro area seguendo il suo movimento, lui si arrota sulla palla, vede Rensing in uscita, potrebbe segnare con un tocco lento, moscio, casuale, e invece ripete quel suo pallonetto beffardo che sa fare solo lui, una riproduzione della curva di Rogers che sale altissimo stringendo il proprio raggio in una maniera che sarebbe da misurare con in goniometro. Regale anche in mezzo all'orgogliosissimo e geneticamente proletario popolo blu.
Il gol al Colonia è una specie di replica del gol che segna allo Zenit in Champions League il 10 dicembre 2008, quando la sua esperienza al Real già sembrava in fase calante. Anche in quel caso il pallonetto sembra una firma d'autore a un qualcosa che potrebbe essere risolto con più semplicità, ma che lui sa gestire solo così, in maniera speciale (tipo quando segna al Rayo Vallecano, il 19 dicembre del 2000, in un modo che sembra più pensato per costruire un qualcosa di immortale, indipendentemente dal risultato finale).
In un'intervista al sito del Real Madrid, un giorno dirà che il suo calciatore italiano preferito era Del Piero, il più simile a lui come movenze, affezione al club, comportamento in campo.
"Del Piero es un grande, de los más grandes del fútbol italiano e internacional. Siempre he sentido una gran admiración porque además había cierto paralelismo en nuestras carreras"
- Raúl González Blanco
Quel parallelismo che li avvicina è stato lo spirito con cui hanno approcciato il proprio ruolo e la propria professione, sempre in equilibrio fra ciò che fosse giusto fare e ciò che meritavano di avere. Rispetto ad Alessandro, Raúl non riuscirà a farsi valere con la nazionale; rispetto allo spagnolo, Del Piero riuscirà a trionfare in Europa una volta sola, uscendo da tre finali sconfitto.
Differenze non importanti se le guardiamo dal punto di vista più simbolico.
Perché come per Del Piero e la Juve, Raúl è stato simbolo del madridismo, immortale e indimenticabile. Il suo sarà un solco da prima o dopo, che per certi versi potrebbe ispirare in futuro pur richiamando un calcio che sembra estinguersi ogni anno che passa.
Perché Raúl era blanco di nome e di fatto, e questo nessuno potrà mai cancellarlo. Anche se quel 7 glielo tolse il calciatore più prolifico, glamour e egocentrico che sia mai esistito, esatto opposto del reale Raúl.
Ognuno a modo suo ha fatto la storia del Real Madrid. Certo è che Raúl, di quella casata, sarà sempre un volto conosciuto.