Il ragazzo gioca bene: come una vecchia rockstar
Ci sono certe vecchie rockstar che guardano la loro chitarra appoggiata alla parete e scelgono di imbracciarla di nuovo, dovendo toglierle di dosso la polvere, dovendola riaccordare. Lo fanno tra i sorrisetti dei parenti che s'immaginano una crisi di mezza età, lo fanno nella solitudine delle loro camere, senza aspettarsi niente più di quelle corde, di quel suono da ritrovare. Succede poi che quelle vecchie rockstar si ritaglino un loro palco, un loro spazio per sentire ancora un applauso o qualcuno che canti con loro un'ultima canzone. Lì per lì son sempre sorrisetti ma appena il suono esce dall'amplificatore succede qualcosa, la prima nota spazza via la polvere, azzera in un attimo il peso degli anni.
I secondi finali di Il ragazzo gioca bene, docufilm su Francesco Flachi disponibile su DAZN, ci lasciano esattamente legati a quella stessa sospensione temporale. Non ci sono note o chitarre ma una maglietta viola (quella del Signa), un pallone che rimbalza e qualcuno sugli spalti ma - aggrappandoci ancora alla dilatazione del tempo e ai suoi capricci - scopriamo il peso di certi sguardi, finiamo per domandarci quando si finisca di essere stelle del calcio e si torni a essere uomini, ragazzi in un campetto dell'Isolotto, padri oppure figli.
Limitarsi al racconto sportivo di caduta e risalita, di resilienza indistruttibile che oltrepassa i limiti comuni del tempo (con un ritorno in campo a 46 anni), sarebbe a conti fatti parziale: pesa di più un campionato andato male oppure lo sguardo torvo di un padre deluso? Contano di più i miliardi o le facce amiche, come rifugio, quando tutti sembrano voltarsi dall'altra parte? Un interruttore, un rapido automatismo, ci permette di attraversare entrambi i territori, quello del calcio ad alto livello e della sua gloria oppure quello intimo della famiglia, delle pressioni che attraversano il quotidiano e non necessitano di titoloni, dei fischi di uno stadio, per lasciare il loro segno profondo.
Ci si accorge dunque di aspettarsi una particolare epica, quella del turbamento di chi non riesce ad essere profeta in patria, e di trovarsi invece proiettati altrove. Ce ne accorgiamo seguendo le tappe di costruzione di una carriera, quegli articoli ritagliati e conservati gelosamente in un album, e le fasi del suo drammatico tramonto, in quello strappo - quella squalifica infinita, quell'onta con cui convivere - che rese il calcio un demone, che lo escluse di colpo dall'orizzonte di vita (dal tuo e da quello di chi era con te).
Ci si risveglia, prendendone coscienza, trovandosi attorno al tavolo di un ristorante: a Genova, insieme a Palombo e a Volpi, oppure con gli amici di una vita, con chi c'è sempre stato e ti ha sempre visto come Francesco (senza l'urgenza di una maglia importante o di un numero sulle spalle). Un risveglio che permette di ripercorrere senza filtri o finzioni l'euforia di quella schiera di buste piene, di quei milioni spesi a cascata, permette di proiettare la luna del Golfo di Genova in una stanza, come ricordo di tempi migliori o come presagio di una fine.
Oltre la retorica dei milioni come veleno, dell'eccesso come causa di un successivo tonfo, si scopre infine il suono di quella chitarra ripresa in mano senza curarsi di qualche ghigno, si riesce a sentire quella speciale nota che (o almeno così ci sembra) suona persino più forte degli anni neri.
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