L'Italia guarda con sufficienza al movimento calcistico giapponese?
"Nemmeno Yoichi Takahashi, creatore di Holly e Benji, avrebbe potuto immaginare un finale così"
- Telecronaca RAI di Giappone-Croazia
Al fischio finale dei supplementari di Giappone-Croazia, primo ottavo di finale dei Mondiali disputato ieri, il commentatore RAI Luca De Capitani ha accolto così l'epilogo dei rigori: lo ha fatto rifacendosi a quell'immaginario che tanti in Italia connettono in maniera diretta al Giappone calcistico e certamente, negli intenti, non lo ha fatto con sufficienza o con fare ironico.
A conti fatti è anche logico che, da queste parti, ci si lasci influenzare da un prodotto che (nella serie animata ancor più che nel manga) ha saputo a suo tempo lasciare il segno, generando in sostanza una realtà parallela in cui il Giappone arrivava a giocarsi le sfide più importanti grazie alle sue giovani stelle.
Effetto Holly e Benji
Al contempo, però, si sottolinea un effetto collaterale non da poco: connettere una realtà calcistica a un manga (e successivo anime) genera un'illusione, un'immagine quasi parodistica di quella stessa realtà. Un contesto che "fa simpatia", banalmente, ma che non riusciamo poi a dotare dei crismi di credibilità e autorevolezza che attribuiremmo invece ad altri contesti sportivi.
Ci si chiede qui, dunque, se l'Italia osservi la realtà calcistica giapponese con una certa aria di sufficienza: la risposta è in linea generale affermativa, pur avendo già sottolineato i presupposti tendenzialmente benevoli del nostro sguardo.
Accanto all'effetto Holly e Benji, all'idea che il Giappone calcistico diventi una sorta di prosecuzione di quell'immaginario, emergono poi altri aspetti (non solo sportivi) che possono spiegarci un simile approccio.
Innanzitutto, è evidente, la J-League non appaia ai nostri occhi come un campionato di riferimento: la copertura televisiva storicamente limitata e banali questioni di fuso orario ce la rendono distante, accanto ovviamente a un discorso tecnico.
Nella mente e nella memoria del tifoso italiano, poi, il campionato giapponese si lega a doppio filo a un effetto nostalgia che supera il discorso Holly e Benji e si rivolge a un'epoca diversa, quella pionieristica che vide Totò Schillaci vestire la maglia del Jubilo Iwata dal '94 al '97.
Gli anni immediatamente successivi fecero poi il resto: pur sottolineando le qualità tecniche di Nakata e Nanami (anche se in questo caso inespresse in Serie A) è chiaro come, anche a livello mediatico, l'arrivo di quei talenti colpì anche per l'ingresso in massa di giornalisti giapponesi negli stadi, come se si trattasse di turisti in gita pronti a fotografare un monumento.
Non solo calcio: orientalismo e storie di vita
Come detto, poi, il tema si allontana dal pallone e sposa deformazioni e vizi di natura culturale: il fenomeno dell'orientalismo, in questo caso, spiega una parte del nostro approccio. Di fatto si tratta di una conoscenza spesso parziale e di facciata di tutto ciò che riguarda l'Oriente, come se arrivassimo a uniformare (nella nostra percezione) tutto quel che accade a quelle latitudini, mantenendo al centro del discorso il punto di vista occidentale e percependolo - per partito preso - come superiore, come più degno di approfondimento e di racconto.
Tornando al calcio e alle sue storie possiamo anche riconoscere che la realtà giapponese, ai nostri occhi, propone esempi anche lontani dai cliché che generalmente associamo al "calciatore": Nakata e i suoi viaggi per scappare dal calcio-business, Nagatomo e la sua laurea in economia politica, Miura e la sua carriera infinita.
Tutti percorsi di vita ricchi di fascino, tali da destare la nostra curiosità, percorsi che però - in fin dei conti - non ci spingono a prendere in considerazione il lato del professionista in sé, il valore tecnico del calciatore (distratti come siamo, appunto, dalla sua storia).
Più di una favola
Eppure, proprio al presente, occorre riconoscere alla realtà calcistica giapponese un peso e un'autorevolezza di chi è riuscito, tra l'altro, a raggiungere gli ottavi di finale dei Mondiali in quattro delle ultime sei occasioni, pur senza riuscire mai ad approdare ai quarti.
Non, dunque, la sporadica impresa o la "squadra simpatia" pronta ad andare presto nel dimenticatoio ma, evidentemente, una realtà calcistica consolidata e difficile da affrontare (lo ha visto la Croazia ieri, lo vide il Belgio nel 2018).
Ad oggi possiamo renderci conto di quanto l'Italia abbia perso di vista, anche a livello di club, il contesto giapponese, senza pesarne le potenzialità: nessuno dei 26 convocati a Qatar 2022 milita in Italia, la Bundesliga invece detta legge e regala al Giappone ben 8 dei convocati a disposizione di Moriyasu.
Germania, Spagna e Belgio ma anche Scozia e Portogallo sono dunque realtà che, ad oggi, riescono più dell'Italia a valorizzare talenti giapponesi. Al contempo un exploit come quello di Tomiyasu, passato dal Bologna all'Arsenal per 20 milioni, ci ha fatto intendere come l'investimento dei rossoblù (7 milioni) sia stato a suo tempo lungimirante.
Dove giocano i 26 convocati del Giappone per Qatar 2022:
Bundesliga: Itakura, Ito, Yoshida, Doan, Endo, Kamada, Osano, Tanaka (2. Bundesliga)
JLeague: Gonda, Nagatomo, Sakai, Taniguchi, Yamane, Soma, Machino
Ligue 1: Kawashima, Ito, Minamino
Premier League: Tomiyasu, Mitoma
Liga: Kubo, Shibasaki (Segunda Division)
Liga portoghese: Morita
Pro League belga: Ueda, Schmidt
Scottish Premiership: Maeda