L'uomo della 37ª giornata di Serie A: Vincenzo Italiano e la nuova impresa del predestinato della panchina
In campo il suo passo non era lento, ma di certo non è passato alla storia delle squadre in cui ha militato per il suo piè veloce, pur potendo vantare una carriera da centrocampista discretamente completo per visione di gioco e anche dinamismo, con 80 presenze in Serie A e tanta Serie B, dove per definizione bisogna correre eccome per stare ad alti livelli. Da allenatore, però, Vincenzo Italiano ha aperto il turbo e sembra andare davvero di fretta. Meno di due anni fa di questi tempi, infatti, l’italiano di Karlsruhe conquistava una memorabile promozione in Serie B con il Trapani, superando il Piacenza nella finale playoff di Serie C. Una vera impresa considerando le difficoltà societarie (eufemismo…) incontrate dai siciliani ed emerse pienamente nell’annata successiva tra i cadetti, conclusa con una retrocessione all’ultima giornata dopo un altro miracolo sfiorato, da un certo Fabrizio Castori, un altro tecnico curiosamente reduce da un’impresa sportiva nelle ultime settimane.
A quel punto Italiano, uno che anche da giocatore si è spesso trovato a dover fare delle scelte importanti, capì che il suo debito di riconoscenza con la squadra e la tifoseria che lo avevano avviato al grande calcio era esaurito e che era arrivato il momento di fare un altro passo in avanti. Ecco allora la chiamata dello Spezia, solido club di Serie B reduce da tanti tentativi, falliti, di mettere piede nel massimo campionato.
Mister Vincenzo ci è riuscito al primo colpo, ancora ai playoff, avendo la meglio sul Frosinone in una post season che gli Aquilotti affrontarono da terzi in classifica dopo aver lottato per la promozione diretta. Che si era davanti a un allenatore predestinato era ormai chiaro, ma questa volta la scelta sul proprio futuro fu diversa: no alle lusinghe del Genoa per concludere il percorso a La Spezia inseguendo la salvezza. Alzi la mano l’addetto ai lavori che a settembre non aveva dato per spacciati i liguri, affacciatisi alla Serie A per la prima volta nella storia con una rosa zeppa di esordienti e un tecnico “visionario”.
Sì, perché pur non essendoci controprove, se un gruppo così composto fosse stato affidato a un allenatore più conservatore, i risultati sarebbero stati con ogni probabilità diversi e l’opinione pubblica non si troverebbe a celebrare la salvezza conquistata dallo Spezia con una giornata di anticipo e dopo non essere di fatto mai stato nelle ultime tre posizioni. Il calcio di italiano è quanto di più moderno ci possa essere, ma declinato con accortezza. Attaccare sì, sempre, anche contro le grandi, magari anche senza modellare il proprio assetto tattico sull’avversario, ma riuscendo anche ad adattarsi ai momenti della partite.
È nata così l’impresa di Napoli, il 6 gennaio, con la squadra di Gattuso ad attaccare e tempestare di tiri la porta di Provedel, salvo arrendersi alle ripartenze degli avversari. Fu uno Spezia catenacciaro? Certo che no, ma semplicemente in grado di capire cosa si poteva fare in quei 90 minuti complice la condizione dell’avversario, i valori in campo e il proprio momento psico-fisico, che era il peggiore della stagione visto il bottino di tre sconfitte in quattro partite raccolto prima della fine del 2021. “Giocare bene non vuol dire far vedere che uno sa cosa fare solo con la palla. C’è la fase di non possesso, della riconquista, dell’essere ordinati in campo” avrebbe dichiarato poco dopo il diretto interessato.
Poi, certo, ci sono stati anche i momenti in cui lo Spezia ha fatto stropicciare gli occhi ed il riferimento va ovviamente alla notte del 12 febbraio, il punto più alto della stagione, quando al “Picco” cade il Milan di Stefano Pioli, all’epoca capolista e imbattuto in trasferta in campionato da giorni. Una vittoria simbolica anche per i nomi dei marcatori, Giulio Maggiore e Simone Bastoni, ovvero due prodotti del vivaio, due dei tanti giocatori che Italiano ha avuto il coraggio di lanciare in pianta stabile in Serie A imponendoli anche dopo qualche prestazione non ottimale, in particolare per il difensore.
Quella dello Spezia è stata la salvezza di questi ragazzi, ma anche di MBala Nzola, fedelissimo di Italiano fin da Trapani e rivelatosi (in ritardo) al grande calcio proprio grazie alla fiducia del suo allenatore, capace di sopportarne discontinuità e mancanza di autostima. O di elementi esperti come Andrej Galabinov, nella storia per la doppietta della prima vittoria in A, a Udine, o di capitan Terzi. O ancora di scommesse come Kevin Agudelo o di ragazzi dal futuro assicurato come Roberto Piccoli, centravanti che farà strada e capace di affermarsi in una squadra che non vedeva un 9 di ruolo come riferimento imprescindibile.
“Essere un allenatore è diverso da essere calciatore. Un tecnico deve lavorare sempre perché deve essere perfetto in tutti i particolari. È un altro mondo” così ha parlato Italiano rispondendo in un’intervista a quanto sia differente il mestiere dell’allenatore da quello del giocatore, anche se in campo si è stati registi capaci di vedere il gioco prima dei compagni e spesso anche prima dei propri allenatori. Banalità? Non proprio, magari concetto non nuovo, a differenza del punto di vista di Mister Vincenzo riguardo al “metodo Barcellona”, che tanto ha affascinato e influenzato (anche troppo) la nouvelle vague della panchina, non solo italiana.
Italiano, contrariamente a tanti suoi colleghi, non ha un modello di allenatore che lo ha ispirato: “A me piace molto l’idea che ha il Barcellona come società. C’è un timbro da rispettare, c’è un’idea, c’è un pensiero dalle giovanili alla prima squadra; con ragazzi che poi vengono portati tra i grandi e hanno già le idee chiare”. Parole sante, che sottintendono la necessità di non scimmiottare i propri miti se non c’è la possibilità di farlo. Lo Spezia si è salvato nonostante una rosa non solo inesperta, ma anche elefantiaca, che ha sì permesso di fare tanto turnover, in una stagione in cui è stato fondamentale poter ruotare i giocatori, ma di non facile gestione. Si è salvato ricorrendo al falso nove non come un dogma, ma quando il contesto tattico della partita lo permetteva e si è salvato non costruendo sempre dal basso, ma solo quando si poteva farlo. E si è salvato nonostante il delicato passaggio di proprietà poco dopo la metà della stagione, scenario sempre pericoloso soprattutto per un club debuttante e con poche certezze a livello tecnico.
Una ventata di normalità unita a quella di affermare la propria identità che sembra già differenziare Italiano dal “capitano” degli emergenti della panchina, quel Roberto De Zerbi per il momento più integralista rispetto al collega che è pronto per raccoglierne l’eredità al Sassuolo. Con chiaro in testa la propria missione: alzare ancora l’asticella e puntare all’Europa. Per poi, magari, portare il proprio credo in una big.
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