L'utopia dell'incedibilità: strategia raccontata come fosse un principio
Potremmo ritrovarci assuefatti all'idea che il tormentone di calciomercato sia un parente stretto del modo compulsivo con cui, oggi, si vivono gli sviluppi della sessione estiva: minuto per minuto, sull'onda del refresh ripetuto, come famelica necessità di scoprire cosa sta succedendo (soprattutto quando non sta succedendo niente). Un'associazione deliberata e superficiale quella tra la telenovela di mercato e stretta attualità: c'è stato un tempo in cui presidenti rivendicavano con striscioni apposti in balaustra l'incedibilità assoluta del campione di turno, coi quotidiani come sede dello stillicidio di voci e di notizie che - giorno per giorno - vedevano il fuoriclasse più in vista sul piede di partenza, con le valigie pronte.
Cambiavano i protagonisti, cambiavano le fonti da interrogare, non mutava la sostanza. L'emblema della strenua difesa del fuoriclasse, quella che si stampa nella memoria, la ritroviamo in un Vittorio Cecchi Gori che al Franchi affisse un chiaro "Batistuta è incedibile, il presidente" in tribuna d'onore nel maggio del 1998, a margine di Fiorentina-Milan. Incedibilità, una parola che in quegli anni iniziava già ad scricchiolare e che non ha certo retto bene al peso dei decenni, parola che si trova adesso ad apparire come pallido revival di cose passate, un vezzo un po' retrò utile per pacificare la piazza (le sue frange sospese tra romanticismo e ingenuità). Diventa un mero gioco delle parti, una sorta di teatro inscenato sul palcoscenico del mercato, e si ripete anche oggi con esiti diametralmente opposti al richiamo romantico di cui sopra.
Una parola dal sapore retrò
Tracciando un filo conduttore tra casi di mercato, toccando cioè le situazioni di Teun Koopmeiners, Nico Gonzalez e Albert Gudmunsson, si può notare come l'atteggiamento mediatico delle società interessate sia stato all'insegna di un pugno duro che così duro alla fine non poteva essere, si può scoprire come tale atteggiamento lasciasse intravedere un'imperturbabilità che nascondeva altro (anche la legittima voglia di monetizzare quanto più possibile o di trovare un sostituto degno). Si segue solo di rado la via del pragmatismo e del realismo, si recita la parte di chi non si smuove o di chi crede realmente che le cose possano andare in una direzione diversa rispetto a quella auspicata dal calciatore.
Ci si dimentica, o si finge di farlo, quanto il potere contrattuale sia ormai sbilanciato in modo sensibile dalla parte del singolo calciatore e di tutto ciò che gli ruota attorno: una pletora di figure professionali capaci, a conti fatti, di elevarsi anche rispetto al peso sacrosanto di un contratto firmato. Di fronte ad un notaio sono posizioni che reggono, il riferimento ai contratti ha un proprio valore intrinseco a cui è dura controbattere, ma la quotidianità del pallone ci spiega quanto il campo parli di umori, di tensioni, di motivazioni che si accendono o si raffreddano nell'arco di pochi mesi. Gli allenatori si trovano - come testimoniato recentemente da Gasperini - tra incudine e martello, chiamati a mediare tra i mal di pancia dei loro calciatori e una società che mostra i muscoli.
Questione di principio o di strategia?
Risuonano a proposito le parole di Daniele Pradè a inizio mercato su Nico Gonzalez "incedibile al 99%", ritornano alla mente quelle di Percassi su un Koopmeiners e sulla sua "cessione non in programma", così come un Genoa che si è detto pronto ad andare avanti con Gudmundsson, a ricucire anche a dispetto della sua voglia di partire poi concretizzata. Posizioni a loro modo pokeristiche, volontà di spostare il peso di una decisione scomoda sul calciatore e di orientare così l'umore della piazza: la società di fatto vuol far intendere di aver fatto il possibile, di aver combattuto, di non aver ceduto ai ricatti e ai capricci del giocatore.
Eppure, nel concreto e seguendo appunto la quotidianità del campo e l'opera certosina dei rispettivi entourage, diventa lampante quanto i mal di pancia dei calciatori siano in realtà profezie autoavveranti: il desiderio di andarsene ha già in sé l'epilogo che sarà, promettersi a qualcun altro (per ragioni di ambizione o di tornaconto economico) ha già il seme di un destino inevitabile. Il senso stesso dell'"incedibilità" suona così come un tentativo vano e puramente strategico, ultimo appiglio su cui far affidamento per non ammettere davanti a tutti un frustrante (e comprensibile) senso di impotenza.