La cicala Mourinho e la formica Allegri: dall'idillio al rifiuto, andata e ritorno
Se il credito acquisito fosse stabile ed eterno, nel calcio, i vincitori sarebbero sempre tali e i vinti non avrebbero strada e modo per riscattarsi. Ciò che si costruisce nel tempo, anche attraverso imprese memorabili, rimane invece vittima di una certa instabilità e non mancano esempi - più o meno recenti - di eroi finiti per essere rinnegati dal loro stesso popolo o di outsider capaci, al contrario, di sovvertire i pronostici, di superare appunto il loro status di "vinti". La Serie A in corso, nelle ultime settimane in particolar modo, sta fotografando in modo eccezionale e nitido la possibilità di vedere smentito ciò che pareva granitico: le posizioni di Massimiliano Allegri e di José Mourinho, poste l'una di fronte all'altra come in uno specchio, ci raccontano insomma tappe di un riscatto e di una caduta, con annesso (clamoroso) esonero.
Proprio uno dei due termini di paragone qui adoperati, Max Allegri, ci dimostra quanto sia labile e leggero il confine tra eroe e nemico, tra simbolo da preservare e sciagura da cui liberarsi: fin dal primo incontro con la realtà bianconera, del resto, Allegri capì quanto fosse difficile scaldare il cuore e animare gli entusiasmi di quel mondo, dopo il tumultuoso addio di Conte e con un vuoto importante da riempire. Dagli insulti e dalle contestazioni del luglio 2014 si passò al prolungamento di un clamoroso ciclo vincente, Allegri seppe costruire insomma la propria immagine bianconera attraverso il record di Scudetti consecutivi e attraverso una dimensione europea più competitiva rispetto a quella di Antonio Conte.
Dalle critiche al riscatto, dagli elogi all'addio
Credito eterno, dunque? Niente di più lontano dalla realtà: il secondo Allegri, quello arrivato in un mondo Juventus totalmente diverso e per certi versi ridimensionato, ha dovuto fare i conti (non occorre neanche andare troppo indietro nel tempo) con critiche interne ed esterne, con tifosi e addetti ai lavori pronti a metterne in discussione il gioco, con l'obbligo di ripartire da zero e di allontanare qualsiasi tentazione di autocompiacimento per quanto raggiunto in passato. Una partenza in salita, dunque, un credito da riscattare senza potersi permettere di specchiarsi in vecchi traguardi, il tutto condito dalle consuete critiche su una mentalità conservativa o persino catenacciara.
Dall'altra parte raccontiamo, invece, un impatto ben diverso: quello di José Mourinho nei suoi primi giorni di Roma, ormai tre anni fa, come portatore sano di mentalità vincente e come leader deciso a mettere mano in ogni singolo aspetto del mondo giallorosso (questo fu il claim del suo approdo nella Capitale, fin dai primi giorni). Una direzione che trovò conforto e conferma nell'idillio con la piazza, nella voglia di farsi accompagnare in questa nuova idea di Roma, col timbro di un trofeo a dare valore e credibilità ai propositi: la Conference League e la notte di Tirana sembrarono tracciare un prima e un dopo, avvicinando la Roma a una nuova dimensione (spesso sfiorata ma mai raggiunta).
Un legame rafforzato poi su due binari differenti, dall'indubbia potenza mediatica: da un lato la capacità di attrarre calciatori di livello internazionale (Paulo Dybala e Romelu Lukaku su tutti, considerandone il curriculum) e d'altro canto la capacità di toccare quei tasti profondi nella piazza, l'idea di "romanismo" curiosamente associata a chi è nato a Setubal e non certo all'interno del Raccordo. Una capacità retorica mai messa in dubbio, quella in grado di rafforzare un senso d'identità, anche ricorrendo a frequenti (e colorite) critiche all'operato arbitrale ma, soprattutto, dimostrando di volersi calare nell'anima del tifo giallorosso, non come turista ma come residente.
Le ragioni di un ribaltamento
Presupposti dunque antitetici tra i due tecnici, da una parte un'insipida minestra riscaldata e dall'altra un nuovo condottiero, con l'attualità che ci permette invece di notare come le prospettive si siano ribaltate, come i contorni dei protagonisti stiano finendo per confondersi. Quale percorso ha portato a una simile inversione, a un Allegri incitato da un Allianz di nuovo "suo" e a un Mourinho divenuto più ingombrante che non trascinatore? Il caso di Allegri si spiega solo in parte coi risultati, come ovvio che sia in un contesto in cui "vincere è l'unica cosa che conta" chiamato a fronteggiare una forma di ridimensionamento, ma si lega al modo in cui il tecnico livornese ha saputo attraversare la tempesta senza mai trovare alibi o senza appellarsi alle circostanze in caso (raro) di sconfitta.
Le potenziali scusanti di certo non sarebbero mancate, pensando alle lunghe squalifiche di Pogba e Fagioli, a un mercato estivo vissuto all'insegna della prudenza e agli strascichi del caso plusvalenze. Una fitta sassaiola a cui Allegri ha saputo rispondere con l'arma dell'equilibrio, un basso profilo mantenuto anche oggi, parlando di obiettivi, e che sta decisamente pagando. Il tecnico bianconero, anche al netto della solidità difensiva e del cinismo divenuto un marchio di fabbrica al cospetto dei "guru del bel gioco", ha dimostrato soprattutto di saper capire il momento storico vissuto dalla Juve e di volerlo attraversare più che subire: non vittima di circostanze avverse, insomma, ma professionista chiamato a concentrarsi sul campo.
Un atteggiamento diametralmente opposto a quello di José Mourinho, spesso pronto a sottolineare la distanza a suo dire abissale da altre realtà (contrariamente a quanto suggerisce il monte ingaggi) e a individuare potenziali giustificazioni di fronte a risultati inferiori alle attese: dal mercato agli infortuni, dalle decisioni arbitrali alla folta presenza di giovani in gruppo, una compilation di ragioni che - alla lunga - ha assunto agli occhi dei tifosi il sapore di un alibi. Una distanza fotografata efficacemente dall'attualità: da un lato Allegri capace di ironizzare sul proprio ruolo ("Come si fa l'allenatore? Non lo so, figurati se so come si allena la Juve") dall'altro un Mourinho autoproclamatosi Harry Potter in virtù di doti magiche esercitate per lottare in ottica Champions.
Bambini o risorse?
Da un lato insomma il pragmatismo di chi rifugge i riflettori, predicando calma, dall'altro la voglia di rivendicare un proprio ruolo quasi magico, di rinverdire i fasti del proprio status di Special One (senza però il conforto dei risultati). Accanto a una diversa definizione di sé e a risultati differenti, con ben 17 punti che separano i giallorossi dai bianconeri, c'è poi il tema dell'inserimento dei giovani e di un approccio totalmente diverso al discorso, alla gestione del gruppo e dei suoi equilibri. Sia Allegri che Mourinho hanno fatto ricorso ai prodotti del vivaio, lo hanno fatto però con un approccio diametralmente opposto.
Il tecnico bianconero ha fatto di necessità virtù e ha saputo raccontare i suoi giovani come parte integrante del gruppo, come elementi della prima squadra a tutti gli effetti, Mourinho dal canto proprio ha spesso ribadito lo status di bambini dei vari calciatori meno esperti, tracciando una sorta di solco tra loro e i senatori. Non solo: il portoghese ha assegnato ad alcuni elementi - Dybala in primis - uno status del tutto particolare all'interno della rosa, rimarcando il peso di un'assenza e palesando una sorta di resa di fronte ai problemi fisici della Joya.
Allegri dal canto proprio (anche a fronte di una defezione come quella di Pogba) ha responsabilizzato il resto del gruppo, senza assecondare una visione gerarchica della squadra e riuscendo a pescare risorse insperate anche in chi è stato bollato prematuramente come esubero. Diventa dunque chiaro come le due strategie comunicative differenti, una all'insegna del basso profilo e l'altra ben più dispendiosa e studiata, stiano lasciando le loro conseguenze: quella di Allegri si sta rivelando una strategia valida a lungo termine, volendo ripercorrere l'eterna morale della cicala e della formica, quella di Mourinho ha pagato fin da subito ma - col tempo - ha portato a un fisiologico logoramento, con l'esonero come timbro conclusivo,