La Dea Bendata ci vedeva benissimo: l'Italia sul tetto d'Europa nel 1968
Ripensare al 1968 come a un anno normale significherebbe cancellare con un colpo di spugna la potenza e l'eco di un movimento che, comunque ci si voglia porre, ha condizionato in modo sostanziale la società, sancendo (almeno da un punto di vista della memoria storica) un prima e un dopo, un crocevia sociale e politico valido anche nei decenni a venire. Il calcio, come sempre, finisce per rappresentare la cartina al tornasole della società: solo George Best, per esempio, poteva essere il Pallone d'Oro degno di quella stagione, e così fu, andando a cristallizzare in un solo personaggio, in un'icona, spinte giovaniliste (Best aveva appena 22 anni nella sua stagione di grazia) e velleità rivoluzionarie di quel periodo specifico.
E proprio di icone si può parlare ripensando a cosa fosse la Nazionale italiana protagonista agli Europei di quel '68: una squadra che annoverava tra le proprie fila nomi del calibro di Zoff, Burgnich, Facchetti, Bulgarelli, De Sisti, Rivera, Gigi Riva. Un gruppo che sembra più un intreccio magico di generazioni, un manuale della storia del calcio italiano, e che dimostrò nell'arco di pochi giorni (tra il 5 e il 10 giugno) quanto la cecità della fortuna conceda talvolta qualche generosa e giusta eccezione, con la Dea Bendata pronta a voltarsi dalla parte migliore, senza fare scherzi, senza negare un lieto fine. In quell'anno di cambiamento anche il calcio visse qualcosa di inedito, agli Europei si accedeva infatti attraverso una fase a gironi, lunga due anni, che avrebbe poi espresso le squadre (Spagna, Bulgaria, Unione Sovietica, Jugoslavia, Ungheria, Italia, Francia e Inghilterra) pronte ad affrontare i playoff per stabilire le semifinaliste.
Le semifinali videro come protagoniste l'Italia contro l'URSS e la Jugoslavia contro l'Inghilterra: se la Jugoslavia riuscì ad avere la meglio nel finale, di misura grazie a Dzajic (sul podio del Pallone d'Oro '68), la storia entrata poi negli annali, a tutto diritto, fu quella dell'accesso azzurro alla finale. Una storia che vide il capitano Facchetti entrare nella pancia del San Paolo e uscire esultante, non per un gol ma per una monetina caduta dal verso giusto: i rigori non erano ancora sdoganati come criterio per rompere lo stallo e la lotteria, in questo caso più che mai, era realmente in mano alla sola fortuna, senza talento o freddezza che tenessero. Un episodio, quello della monetina, che concentra in sé la distanza tra quel calcio da quello degli anni a venire: sia per il mistero dell'evento, nascosto agli occhi dei compagni di squadra ma vissuto solo dall'arbitro e dai due capitani negli spogliatoi, sia per una surreale interruzione del collegamento TV prima ancora di sapere chi sarebbe andato in finale.
La stessa finale poi, a Roma contro la Jugoslavia, fornì un nuovo capitolo di questo bignami di calcio lontano anni luce dal nostro: una finale non bastò, finendo in parità per 1-1 l'8 giugno, e si dovette dunque procedere con la ripetizione, due giorni dopo. La tappa finale degli Europei del '68 portò su di sé il timbro del CT Valcareggi, grazie all'intuizione di rivoluzionare la squadra rispetto alla sfida disputata appena due giorni prima, per avere più freschezza atletica e imprevedibilità: appena un cambio tra gli uomini di Mitic, ben cinque nella formazione di Valcareggi, con l'inserimento dal primo minuto di Salvadore, Rosato, De Sisti, Mazzola e Riva.
Proprio uno dei nuovi innesti, l'attesissimo Rombo di Tuono Gigi Riva, bagnò al meglio il ritorno dopo i postumi di un infortunio e portò gli Azzurri in vantaggio al 12' con un sinistro micidiale dopo un preciso stop nel cuore dell'area di rigore. E al 30', dopo una bella parata di Zoff, l'Italia ripartì nel migliore dei modi pescando Anastasi (allora ventenne) al limite: controllo ad alzarsi il pallone e destro imprendibile per Pantelic, 2-0. Un secondo tempo di apnea e sofferenza, con l'Italia pronta a ripartire ma non sempre cinica nell'ottica di chiudere i conti, si concluse con la festa di un Olimpico illuminato da fiaccole e fuochi artificiali: il primo successo azzurro agli Europei in un'edizione per certi versi straordinaria, per metà innovativa e per metà "in bianco e nero", già antipasto di un'Italia che due anni dopo sarebbe arrivata a giocarsi il Mondiale contro il Brasile di Pelé.