La disarmante sincerità di Daniele De Rossi
Dalla fase embrionale o meramente immaginata del Daniele De Rossi allenatore ci si trova adesso proiettati su un piano diverso, quello della realtà dei fatti e dei primi passi come tecnico di Serie A: superata, dunque, l'elucubrazione su "che tipo di allenatore sarà" si approda all'osservazione, al giudizio e alla scoperta graduale di un fatto tanto concreto quanto suggestivo, collegandosi alla sua Roma.
Ben prima dell'esperienza alla SPAL, in B, ci si domandava quali potessero essere i padri ideali di questa nuova versione di DDR, quali semi avesse fatto propri e quali insegnamenti di campo volesse portare con sé: si parlava dunque di un'impronta di Luis Enrique, lasciata nel solo anno insieme, oppure dell'indubbia influenza esercitata da Luciano Spalletti.
L'anno alla SPAL ha rotto in qualche modo la distanza tra immaginazione e realtà, spostando la questione: non più filosofia o "idee di calcio" ma, prosaicamente, il bisogno di valorizzare al meglio una rosa e di provare a salvarla. Del resto De Rossi, anche da calciatore, si è spesso distinto per la volontà di sgretolare ogni tentazione di specchiarsi nel proprio status, ha abbracciato costantemente un pragmatismo e una concretezza che - anche al presente - torniamo ad apprezzare.
L'emblema dell'approccio di DDR si ritrova, ad esempio, nel modo in cui prende le distanze da quei tecnici che raccontano "il proprio calcio" come fosse una pozione magica: "Il mio calcio (come espressione, ndr) è una roba che mi fa venire i brividi. A volte, ho sentito dirlo anche da allenatori che stimo, ai quali voglio bene. È un’espressione sbagliata, perché il calcio non è mio". De Rossi prende le distanze insomma dai guru, veri e presunti che siano, e al contempo si smarca da quella retorica che spesso ammanta il racconto mediatico dei tecnici.
Non c'è trucco, non c'è inganno
Una missione, un approccio, che trova il proprio fondamento in una sincerità inusuale per un tecnico, soprattutto ad alto livello, in una cifra che passa dunque dalla rinuncia a quei giochi mentali, a quel continuo nascondersi che caratterizza colleghi più o meno noti. "È un grande comunicatore", si afferma spesso rispetto a chi fa largo uso di quella retorica, rispetto a chi sa giocare abilmente con le parole: difficile immaginare che De Rossi, anche in queste nuove vesti, possa ambire a un simile timbro (o lo immagini come una medaglia).
Ragionando della discontinuità Mourinho-De Rossi ci si sofferma ovviamente sull'impronta di gioco più orientata al possesso e più spregiudicata ma, altrettanto, si potrebbe collocare DDR agli antipodi rispetto al portoghese dal punto di vista della comunicazione, basandosi semplicemente sulle conferenze stampa o sulle occasioni di confronto con inviati e opinionisti. Da un lato lo Special One, un vero e proprio mago nell'indirizzare altrove l'attenzione o nel portarla a sé, che si tratti di proteggere la squadra o di distogliere lo sguardo dalle criticità.
Dall'altra parte un De Rossi pronto a raccontare le proprie scelte, i processi mentali e la vita da tecnico come un libro aperto, senza strategia. Lo si è intuito fin da subito e si continua a scoprire partita dopo partita. Soffermandosi sullo sporadico ritorno alla difesa a tre De Rossi si è espresso così: "Metto a tre per dare sicurezza ma forse non c'è bisogno...lo faccio quando li vedo stanchi e cotti, erano insuperabili a cinque ma evidentemente stanno in rigetto di quel modulo". Si nota neanche troppo tra le righe una rara autocritica, assieme alla spiegazione onesta e diretta della scelta, senza mascherarla da geniale intuizione.
Un approccio che si ritrova anche nella gestione del gruppo, nel recupero di quei calciatori che apparivano ormai ai margini: Celik è un esempio efficace in tal senso, De Rossi ancora una volta si è espresso in modo diretto sul turco e sulla sua crescita. "Non puoi prendere un giocatore scarso e dirgli che è forte, è forte, è forte e lui fa quella prestazione, se è una sega è una sega. Celik è un giocatore forte, non perché io lo martello psicologicamente" ha spiegato il tecnico, sottolineando come il turco abbia saputo scalare gerarchie grazie al lavoro in allenamento e all'impegno quotidiano. Nessuna bacchetta magica, dunque: De Rossi anche in questo caso sceglie la strada del pragmatismo, del senso pratico.
Semplicemente allenatore
Il tecnico giallorosso, nella sua prima uscita in questa veste (in sede di presentazione), ha del resto lanciato indizi e segnali del proprio modo di vivere il proprio ruolo di allenatore, semplicemente allenatore appunto, e lo ha fatto a più riprese. Si esce dal campo, ci si concentra sul momento dell'ingresso a Trigoria a bordo della propria auto e sui tanti input ricevuti, sui consigli graditi o meno nell'ottica di "raccontarsi" in un certo modo: "Non devo fingere: una persona mi ha consigliato di non venire con la mia macchina, perché sai, è troppo… Io non devo fingere nemmeno di essere povero. Non devo fingere, devo fare allenatore".
Non c'è ovviamente un'ombra di ostentazione nelle parole di De Rossi, c'è invece la piena consapevolezza di non voler rappresentare o raccontare altro rispetto all'essenza delle cose: essere l'allenatore della Roma, più o meno a lungo, senza bisogno di cucirci sopra una narrativa, di costruirci sopra un personaggio. Senza fronzoli o ruffianerie insomma, con l'arma dirompente della sincerità e con tutta la voglia di raccontarsi tramite il campo, tramite i risultati e grazie al gioco della sua squadra. Difendendo con orgoglio la scelta di essere "soltanto" allenatore.