La modernità nella tradizione: il calcio di Gian Piero Gasperini
Per diventare un buon allenatore devi essere stato giocatore, a prescindere dalle tue qualità tecniche. Per saper domare lo spogliatoio di una grande squadra devi prima averlo vissuto con le scarpette ai piedi. E per avere una mentalità offensiva in panchina devi avere avuto maestri che ti hanno inculcato idee simili.
Sono, questi, solo alcuni dei luoghi comuni che il calcio tramanda da generazioni. Luoghi comuni cui per fortuna tanto la carta stampata, attraverso le penne più appuntite e perspicaci della storia del giornalismo sportivo italiano, quanto gli stessi addetti ai lavori interessati da tali considerazioni, hanno provato a scalfire.
Alla fine, però, come in ogni contesto, il modo migliore per confutare una tesi palesemente non vera è dimostrarne sul campo la sua irrecevibilità. La carriera di Gian Piero Gasperini è l’esempio migliore che il mix ideale per avere un allenatore di livello consta in un 30% nelle idee trasmesse dai propri maestri e per la restante parte nell’elasticità mentale, nell’esperienza e nell’intelligenza di metterle in pratica rispettando una serie di dinamiche che comprendono l’evoluzione della tattica calcistica e in generale del ruolo che il calcio ha nella vita quotidiana, leggasi la trasformazione in uno spettacolo anche mediatico, il materiale umano a disposizione e la propria maturazione tecnica e umana.
Perché se oggi la domanda delle domande non è se la carriera del Gasp terminerà dove è iniziata, ovvero nella Juventus, ma è “Ma il Gasp vincerà un titolo prima o dopo?”, il merito è solo del diretto interessato, capace di spostare l’attenzione da un dettaglio meramente statistico, legato all’alfa e l’omega di un percorso lavorativo, ad un quesito fino a qualche anno fa impensabile.
A quanti anni fa? Magari una decina, visto che il treno della fortuna per Gian Piero da Grugliasco è forse già passato. La storia è nota: nell’estate 2011 un’Inter ancora inebriata dalla gioia del Triplete e delle glorie dei tempi di José Mourinho, non avverte che i successi della breve era Leonardo (Coppa Italia e secondo posto in campionato in rimonta, dopo il Mondiale per Club vinto da Rafa Benitez, liquidato poco dopo) non erano che il canto del cigno di un ciclo in chiusura. E invece ecco la sterzata utopista attraverso l’ingaggio di un tecnico emergente, reduce da stagioni brillanti alla guida del Genoa, portato dalla Serie B alle soglie della Champions League, attraverso quel gioco particolare, un po’ italiano e un po’ olandese. In due parole, anzi tre, moderno, ma non troppo.
L’esperimento però fallì e la centrifuga durò appena tre mesi, nei quali a mancare, oltre alla vittoria in gare ufficiali, fu la scintilla in uno spogliatoio che rifiutò le idee del (presunto) eretico, che si ritrovò chiamato a svolgere un compito troppo arduo e forse impossibile, convincere delle proprie idee un gruppo evidentemente scarico e da svecchiare. La separazione fu traumatica e, come da tradizione, piena di veleni incrociati, dal passato juventino del Gasp alla mancanza di programmazione della società nerazzurra. Il colpo fu duro da assorbire e le ferite si videro nella breve esperienza a Palermo, dove Gian Piero era già stato da giocatore. Ma la stagione era nata storta e tra esoneri e ritorni fu impossibile raddrizzarla.
Poteva un allenatore con negli occhi le idee di un’inedita rivoluzione tecnico-tattica aver perso tutti i propri poteri per tre mesi deludenti e peraltro non privi di attenuanti? Lo stesso allenatore che a inizio carriera, dopo i primi passi sulla panchina della Juventus Primavera, aveva sorpreso anche a Crotone, riportando la squadra in B e salvandola tornando dopo un esonero con in rosa tanti allievi dell’era dei giovani bianconeri?
Ovviamente no ed ecco che, a proposito di opportunità di scelte, dopo l’errore del sì all’Inter il profeta di Grugliasco fa la scelta giusta e torna là dove tutto iniziò, dove per tutto si intende la carriera ad alti livelli. Il triennio-bis al Genoa, allora, pur senza toccare le vette del primo ciclo, ha permesso a Gasperini di ritrovare l’essenza del proprio mestiere, nel senso etimologico della parola: insegnare calcio, plasmare giovani e cercare il risultato attraverso il gioco. Due salvezze e un sesto posto valso un’altra qualificazione all’Europa, cancellata però dalle difficoltà societarie del club, si sono rivelati il trampolino ideale per dimostrare a tutti che il laboratorio delle idee gasperiniano era ancora pronto per produrre idee nuove.
Da qui nasce la fantastica avventura chiamata Atalanta, capace di scrivere una piccola, grande storia di calcio. E come accade in molte delle fantastiche avventure, l’inizio ha avuto più del terribile, che del fantastico. Reduce da una stagione anonima seguita ad una conclusasi con una salvezza soffertissima, il presidente della Dea Antonio Percassi era alla ricerca di un progetto stuzzicante che desse sostanza alla propria gestione-bis, rivolta alla costruzione di una squadra e soprattutto una società sempre più ambiziose in cui saggi investimenti dovevano integrarsi con la storica valorizzazione del vivaio. La scelta di Gasperini non scaldò comunque la tifoseria, che trovò conferma della propria diffidenza nell’inizio-shock: lampi di gioco si intravvedono, ma i punti non arrivano. Una vittoria e quattro sconfitte nelle prime cinque giornate sembrano il preludio dell’esonero, ma ecco che nella storia recente dell’Atalanta spunta una data chiave.
Non quella del 2 ottobre, quando la vittoria sul Napoli avviò di fatto una cavalcata ancora in essere, bensì quella del 21 settembre, quando la sconfitta casalinga contro un Palermo che era ancora a secco di vittorie la società reagì rinnovando la fiducia a Gasperini. Trent’anni prima il Milan di Berlusconi fece lo stesso con Arrigo Sacchi. I frutti raccolti dall’Atalanta, in proporzione, sono stati superiori.
Più che il quarto posto raccolto al termine della prima stagione, impensabile in autunno, con pass per le Coppe, più che le notti magiche in Europa League contro Everton e Borussia Dortmund, quest’ultimo giustiziere della Dea in una partita con mille rimpianti, più ancora che la semifinale di Coppa Italia del 2017 e la finale del 2019 persa contro la Lazio e più ancora che i due terzi posti del 2019 e del 2020, valsi altrettante qualificazioni dirette alla fase a gironi di Champions League, è giusto ricordare il settimo posto della stagione 2017-2018, che segnò un apparente passo indietro, ma che si rivelò invece il fondamentale punto di svolta per alzare l’asticella.
Più che di parlare di tattica, si può riflettere su questo aspetto: grazie a Gasperini l’Atalanta non è più solo una piccola che sforna talenti dal vivaio, li valorizza e li vende, bensì una grande a pieno titolo, temuta dalle big e dalle piccole, ma soprattutto capace di dialogare a testa alta sul mercato con società dal fatturato ben maggiore. Si pensi al “caso” Kulusevski, bocciato in maniera più o meno chiara da Gasperini per la sua creatura, ma ceduto a peso d’oro alla Juventus dopo un’annata magica al Parma. Un tempo i campioncini la Dea doveva crescerli in casa e rivenderli, aspettandone magari la maturazione a detrimento dei risultati. Oggi, proprio come le grandi del pallone, l’Atalanta ha acquisito la personalità per far coesistere la politica del vivaio con le proprie ambizioni.
Il calcio di Gasperini non è figlio di quello spregiudicato del maestro Galeone, avuto dal tecnico piemontese negli anni migliori della carriera, a Pescara, bensì un calcio più integrato e per certi versi saggio. Un calcio cui tutti guardano per la sua modernità nella tradizione, leggi coesistenza tra costruzione del gioco dal basso e marcature a uomo, per quel suo spirito offensivo incastrato nella perfetta registrazione dei meccanismi difensivi (dove gli errori sono quasi sempre individuali e non di “sistema”), per il fatto che ogni allenatore del mondo sogna di avere la stessa intensità in ogni zona del campo e di segnare 100 gol in una stagione senza perdere gli equilibri di squadra, sogna di andare a testa alta contro tutti e di potersi permettere di non cambiare spartito a seconda degli avversari.
Sogna di avere giocatori rapidissimi in ogni reparto. O ancora per la perfetta gestione del doppio trequartista in coesistenza con la difesa a tre. Il non dare punti di riferimento agli avversari è il segreto della squadra più "olandese" del mondo dal post Arancia Meccanica, perché in casa Gasp tutti sanno fare tutto, lo fanno bene e a 100 all’ora, con sempre mille soluzioni in fase offensiva a disposizione.
Se poi ci si mette anche la storia con i suoi colori drammatici, il film è già bello e scritturato: l’assurda avventura in Champions con l’inizio shock fatto da tre sconfitte, la rimonta, le notti contro il Manchester City, la rocambolesca qualificazione agli ottavi e le goleade al Valencia si sono inserite nei mesi più drammatici per l’umanità nel post seconda guerra mondiale, con Bergamo beffardamente epicentro della tragedia-Coronavirus. I suoni delle ambulanze e le immagini dei carri funebri che hanno fatto il giro del mondo nel marzo da paura fanno da contraltare alle urla di Gasperini e della sua truppa. Urla di gioia prima e di rabbia soffocata dopo il lockdown. Un urlo di legittimo orgoglio, nella cui eco si intuisce un sentito Grazie da parte di tutti gli appassionati di calcio mondiali. In particolare a coloro che credono a progetti e programmazioni oculate. Ma non chiamatela favola.
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