La retorica degli eroi e la morale del giorno dopo: il racconto di un flop

Il richiamo al silenzio e al pudore stride con un calcio (e con un mondo) che parla altri linguaggi
Spain  v Italy -EURO
Spain v Italy -EURO / Soccrates Images/GettyImages
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Le sconfitte altrui hanno il potere di consegnarci in mano lo scettro del giudizio e le ricette del giorno dopo: dopo un epilogo negativo ci facciamo tutti facili profeti, con tono più o meno sicuro e deciso, individuando cosa dovrà essere, cosa sarebbe dovuto essere, cosa avremmo fatto noi. Il flop dell'Italia a Euro 2024, con l'eliminazione agli ottavi patita per mano di una Svizzera del tutto meritevole di passare il turno, rappresenta l'occasione ideale per rispolverare tutto il repertorio dei luoghi comuni che ci seguiranno inesorabilmente per tutta l'estate e oltre: i bambini che non giocano più per strada, l'esterofilia "alla Corvino" come radice dei guai, i problemi strutturali (tra seconde squadre, Serie A a 18 e non a 20) e tanti altri intramontabili successi, buoni per tutte le stagioni.

Il colpevole perfetto

Tra i tanti successi, però, uno riesce a scalare l'hit parade e prendersi le prime pagine, rifilando una spallata alle istanze di sistema e alle analisi meticolose sullo stato del nostro calcio: la figura del calciatore come perfetto colpevole, ricchezza e popolarità come stigma assoluto, esposizione come nemesi della sconfitta. Quanto scritto oggi sul Corriere dello Sport, a firma Cristiano Gatti, ci rimanda a una forma di rimprovero: si chiedevano un "basso profilo" e un "doveroso silenzio" e si è ricevuto altro, dopo l'eliminazione. Già il titolo, Il cielo è azzurro sopra il mojito, ci consegna le chiavi interpretative di quanto si leggerà: il vezzo estivo di un cocktail come male assoluto, come negazione dell'etica e della responsabilità, la vacanza "social" come affronto al popolo italiano che si struggeva per quanto vedeva sul campo.

Itali
L'Italia a Euro 2024 / Eurasia Sport Images/GettyImages

Sul Corriere si prova a prendere le distanze da "una pretesa da moralisti bacchettoni" ma rimane evidente quanto il concetto stesso di silenzio e di "eclissamento" sia ormai sconnesso dalla realtà in cui siamo profondamente immersi, dalle reti sociali (e social) dei calciatori, da abitudini di vita su cui nessun segno di penitenza - se non fasullo e costruito ad arte - può avere effetto. Avrebbe del resto un senso pratico abbozzare un broncio o una testa bassa per mostrare pentimento? Il fallimento sportivo, poi, deve necessariamente legarsi a un senso di penitenza o di riscatto da conquistare fuori dal campo? Pare che ci si allontani dalla sconfitta come parte integrante del gioco, dall'eliminazione come evento previsto dalla statistica: si eleggono così eroi, lo si fece nel 2021, e si creano gironi infernali sulla scia di una foto in costume.

Nessuna vergogna, solo sconfitta

Il richiamo all'adeguatezza e al silenzio, qualsiasi cosa significhi, suona dunque sia anacronistico che - ancor di più - legato a un'idea di fallimento sportivo come male da cui liberarsi fuori dal campo, come a dover dimostrare "di essere uomini". Più prosaicamente, anche distaccandosi dalla retorica di Luciano Spalletti in cui si citavano gli eroi, si potrebbe immaginare di affrontare la sconfitta - per quanto umiliante - come rovescio di quella stessa medaglia che ci vedeva fare i caroselli, appena tre anni fa. La "vergogna" citata dal Corriere dello Sport deve appartenere necessariamente a un altro registro, ricorrere poi al riferimento alle compagne dei calciatori stessi, "gente con i tranci di carne fresca delle compagne generosamente esibiti in vetrina", ci porta poi persino oltre e rende chiaro come la morale del giorno dopo possa far scivolare il discorso su una rappresentazione pericolosa, su azzardi che non vale mai la pena percorrere.

Luciano Spalletti
Svizzera-Italia / Alex Grimm/GettyImages

Non si tratta di temi percorsi solo per il rendimento delle Nazionali, per quanto le Nazionali sappiano enfatizzare ancor di più il senso di "richiamo morale": anche nel caso dei club sono frequenti casi di calciatori tacciati di "scarso attaccamento" per una foto sorridente dopo una sconfitta, sono innumerevoli le situazioni in cui si giudica l'uomo anziché l'atleta. Ci si lascia, di fatto, con un interrogativo: sarà forse fisiologico a un certo punto lasciar perdere la retorica degli eroi, quella stantia dell'"uomo prima dell'atleta"? Faremo mai pace con ciò che è, anziché attaccarci a rappresentazioni creative di "un mondo che non c'è più?". Occorre normalizzare la sconfitta, lasciare che questa viva esclusivamente sul campo - con tutte le valutazioni di natura tecnico-tattica possibili - e non respiri altro, non si affacci dove non le compete, scagliando sassi ben più grandi di un pallone.


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