La sindrome del bravo ragazzo sotto ai riflettori: è il momento di Terracciano
Il vizio e la virtù sono spesso separati da una linea più sottile e sfumata del previsto, l'affidabilità e la lealtà in linea di principio appartengono al novero dei pregi più apprezzabili ma non è raro che - non solo nel pallone - l'assenza di derive istrioniche e di capricci finisca per generare qualcosa di simile alla noia. Il ruolo del portiere, poi, ci permette di osservare ancor più da vicino un simile paradosso: una forma di rapimento quasi illogico ci porta talvolta a restare abbagliati da chi "para per i fotografi", ci conduce a ricordare il guizzo felino più della continuità, rende il Pietro Terracciano di turno come la vittima sacrificale perfetta della sindrome del bravo ragazzo.
Numero uno senza mai esserlo
Una condizione che dura da tempo, che non ha mai permesso al portiere campano di essere ritenuto senza se e senza ma come il numero uno, quello vero, quello che non ha fantasmi da cui guardarsi o concorrenti insidiosi pronti (sulla carta) a soffiargli il posto. Una situazione che Terracciano ha imparato a conoscere, di fatto uno status immutabile dal 2020 in poi. Sulla carta l'ex di Empoli e Salernitana, al momento dell'arrivo alla Fiorentina, incarnava fedelmente il profilo del dodicesimo perfetto: forte di una lunga gavetta, italiano, capace di non alzare i toni e di aspettare silenziosamente il proprio spazio, senza sgomitare.
Un identikit ideale nell'ottica di "far crescere" l'ipotetico numero uno del domani, il titolare designato del giorno dopo: un giorno che però, di fatto, non è mai arrivato e non sembra in procinto di arrivare. Da prototipo ideale di secondo portiere, infatti, Terracciano ha saputo diventare - col tempo - un pilastro rispetto a concorrenti più fragili (e spesso più sponsorizzati). Uno scenario che ha avuto luogo con Dragowski, tornato in viola nel 2020 dopo le grandi prestazioni di Empoli, che si è ripetuto successivamente con Gollini (senza considerare la sfortunata parentesi di Sirigu) e che soprattutto potrebbe materializzarsi ancora una volta, col neoarrivato Christensen.
Come un pugile
Osservare la carriera di Terracciano ci regala dunque qualche sorpresa, soffermandosi sul periodo in viola, lasciandoci capire come il classe '90 - alla stregua di un pugile - abbia saputo incassare colpi nel migliore dei modi, lasciando parlare il campo, tenendosi alla larga da ogni pretesa di titolarità e restando aperto a questo perverso gioco di turnover (da cui spesso il portiere può dirsi immune). Per Italiano non è così: gli avvicendamenti e l'idea di "far giocare chi dà più garanzie" passa anche dalla porta e genera dunque un costante ballottaggio, tra Serie A e Conference League, come arma in grado di stimolare ma anche come spada di Damocle da cui guardarsi.
Una minaccia che Terracciano, più di chiunque altro, ha saputo tramutare in risorsa. La prova di Udine, con parate decisive ai fini del risultato, lo ha portato al centro della scena ma l'elogio di Terracciano parla anche una lingua diversa: quella dell'affidabilità e della costanza. Una delle virtù che hanno consentito al portiere di liberarsi dello status di "eterno dodicesimo" risiede, poi, nella capacità di assecondare la richiesta di Italiano nei confronti dei suoi portieri: giocarla spesso, non buttare via il pallone, reggere la pressione quando il compagno sceglie di ripartire da dietro.
Tutte situazioni che ci permettono, da tempo, di vedere Terracciano più freddo e solido rispetto ai colleghi che - di volta in volta - sembrano pronti a soffiargli il posto. Lo stesso Christensen è stato elogiato da Italiano e dai viola come un portiere particolarmente audace e coraggioso, tutt'altro che conservativo, ma è evidente come - ad oggi - sia l'italiano a regalare meno brividi, a risultare più affidabile per la difesa, pur senza quell'indole "modernamente audace" del più giovane collega. Non ci è dato sapere se esita realmente una cura efficace per la sindrome del bravo ragazzo, ciò che appare chiaro però - grazie a Terracciano - è la possibilità di conviverci in modo più che degno e autorevole, aspettando il prossimo "numero uno di domani" a cui insegnare (da fratello e non da nemico) qualcosa che duri nel tempo.