Le montagne russe e gli esami che non finiscono mai: la storia di Vlahovic alla Juve
La percezione di Dusan Vlahovic all'interno del mondo Juventus somiglia da vicino alle montagne russe, non permette di arrivare a un punto e - passo dopo passo - vede lo status del serbo variare in modo sensibile agli occhi di tifosi e addetti ai lavori. Il fantasma di un'etichetta di cui essere degno, quella di top player, somiglia a una condanna: i minuti in campo hanno un peso specifico diverso quando sono esami da superare, quando ogni pallone porta in sé il peso di una critica o dell'esaltazione, l'idea di un "ve l'avevo detto..." degli scettici o di un "io ci credevo" dei più ottimisti. Perché, rispetto a Vlahovic, l'idea che gli esami non finiscano mai trova una cronica conferma? Innanzitutto il tema dello status si lega all'arrivo da una realtà diversa da quella bianconera, da un contesto come quello della Fiorentina 2021/22 di Italiano: realtà sportiva che senz'altro divertiva, che segnava l'inizio di un nuovo progetto, ma che non presentava gli imperativi e le pressioni del contesto juventino.
Uno status da meritare
L'esame principale, fin dall'inizio dell'avventura bianconera a inizio 2022, risiedeva appunto nel dimostrare di "essere da Juve" e di poter essere il giusto centravanti per una squadra che puntava a vincere e non solo a divertire. Un esame che, anche a posteriori, vide il serbo imporsi a suon di gol e senza dunque patire il salto da una realtà all'altra: in quel senso i 17 gol viola della prima parte di stagione erano un biglietto da visita impegnativo con cui misurarsi. Proprio per questo il fraintendimento di base riguardava l'idea che, passando dai viola ai bianconeri, quanto fatto agli ordini di Italiano potesse addirittura amplificarsi: non si prendeva in considerazione che l'incredibile media gol si legasse proprio a quei meccanismi che in viola si erano ormai cristallizzati, in un sistema di gioco collaudato e con un atteggiamento spesso spregiudicato (e distante da quello della Juve targata Allegri).
Le valutazioni statistiche fatte per astratto rappresentano un inganno già di per sé, in questo senso ci aiuta anche osservare il peso specifico di Vlahovic nella Juve dello scorso anno: senza il serbo la media punti e la media gol dei bianconeri, nel 2023/24, sono calate in modo sensibile (si parla sostanzialmente di dati che si dimezzano in caso di assenza dell'ex viola). Al contempo si sottolinea come Vlahovic, nella scorsa stagione, abbia saputo trovare il gol in più modi diversi, ampliando il proprio repertorio e concretizzando quella crescita col destro che ha spiegato a più riprese di voler perseguire. Ultimo dato interessante: nel 2023/24 Vlahovic è stato il secondo calciatore ad andare più volte al tiro, secondo solo a Kvaratskhelia (il tutto in una squadra complessivamente quinta in Serie A per tiri in porta).
Un altro tema rilevante è quello dello status complessivo dei bianconeri: l'era Vlahovic - se esagerando volessimo chiamarla così - corrisponde a un cambio di paradigma nell'orizzonte generale del club, in stagioni segnate da nuovi scandali (con annessa esclusione della coppe nel 2023/24) e da una forma di austerity certo complessa da far digerire. In qualche modo, come conseguenza quasi fisiologica, il volto di Vlahovic è stato automaticamente accostato a una Juve lontana dall'idea di grandeur emersa - ad esempio - con acquisti passati di tenore diverso (con Cristiano Ronaldo come emblema). Il peso di un ingaggio da top player in un contesto di necessaria gestione oculata dei conti, come quello da cui arriva la Juve, ha fatto sì che l'aspettativa nei confronti del serbo fosse per certi versi più grande di lui e persino insostenibile nel concreto.
Il fraintendimento tecnico
C'è poi un discorso tecnico, una sorta di fraintendimento che ha visto Vlahovic accusato di non essere una punta in grado di partecipare sufficientemente alla costruzione, un elemento su cui appoggiarsi e capace di legare il gioco: una sorta di controsenso, pensando al fatto che - in viola - l'accusa fosse talvolta l'opposta, ovvero quella di non essere pronto sulle occasioni "sporche" e di farsi assorbire fin troppo dalla "regia" offensiva. Un apparente controsenso che si lega, con tutta probabilità, alle caratteristiche profondamente diverse della Fiorentina di Italiano e della Juve di Allegri: era utopistico immaginarsi lo stesso tipo di partecipazione in un contesto tattico totalmente diverso.
Le voci su Zirkzee e l'arrivo di Thiago Motta hanno fatto sì, poi, che dal serbo ci si aspettasse un ulteriore contributo da regista offensivo, come a ricalcare quanto fatto dall'olandese in rossoblù con Motta. Un auspicio fallace in sé, Zirkzee è sempre stato meno centravanti puro rispetto al serbo, ha palesato una tecnica superiore (con tanto di statistiche totalmente diverse per dribbling tentanti e riusciti) e al contempo non ha mai avuto la potenza e la cattiveria di Vlahovic nell'attaccare la porta. Nel caso del serbo possiamo comunque riconoscere come il lavoro di sponda e quello spalle alla porta appartengano eccome al suo bagaglio, senza però immaginare un livello di partecipazione al gioco paragonabile a quello dell'olandese ora ai Red Devils: anche la heatmap dei due ci dimostra come Zirkzee agisse spesso da "falso nove", giostrando sulla trequarti e toccando molti palloni in più (sostanzialmente il doppio) rispetto a Vlahovic.
Le montagne russe, nella percezione di Vlahovic e del suo status all'interno dell'universo bianconero, si legano insomma a due richieste inesaudibili già a monte: compensare, da solo, carenze offensive di una squadra (nelle scorse stagioni) o somigliare a un prototipo di giocatore ben diverso dal suo profilo, come a potersi plasmare in modo astratto a un identikit tracciato a priori. Fuori dalle richieste utopistiche e dalle pretese capricciose, però, esiste il riscontro di un calciatore in grado di migliorarsi nel quotidiano, di lavorare sui propri limiti e di uscire dai numerosi (veri e presunti) momenti di crisi: cosa vuol dire, del resto, essere un top player?