Luciano Spalletti comodo non ci sa proprio stare: il suo Scudetto contadino
"Vincere uno Scudetto a Napoli è una cosa che mi farà stare comodo per il resto della mia vita sportiva". Luciano Spalletti ci ha anche provato, insomma, ha provato a raccontare una versione di sé in grado di sedersi, di sorridere senza lasciare spazio a ombre, una versione orientata semplicemente a quell'attimo di cui godere.
Non ci è dato sapere se mentisse sapendo di farlo o se realmente, in quella sua esternazione, ci fosse un vero auspicio, sincero e spassionato. Quel che rimane, però, dopo la notte del terzo Scudetto è l'oggettiva e palese incapacità del tecnico di Certaldo di lasciarsi effettivamente andare, di farsi avvolgere in assoluto dal senso di euforia, mollando la presa, staccando la spina. Anche il più granitico sergente di ferro, anche il più solido dei leader, riusciremmo a immaginarlo intontito dall'ebbrezza di un momento storico, pronto ad accantonare il peso e la responsabilità di un ruolo, spegnendo il cervello (potendo permettersi di farlo). Qui, invece, si parla di altro.
Utilizzando proprio le parole dello stesso Spalletti, stavolta quelle arrivate dopo il titolo e non in attesa, troviamo estrema (anche dolorosa) consapevolezza in quanto affermato a DAZN coi festeggiamenti ancora in corso: "Il problema per quelli abituati a lavorare duramente sempre, come me, è che non riescono a gioire totalmente nemmeno delle vittorie. La felicità è una cosa fugace. Ora ho vinto, ok, ma poi bisogna di nuovo lavorare. E' un'impostazione di vita che ti toglie qualcosa".
"Ora ho vinto, ok, ma poi bisogna di nuovo lavorare. E' un'impostazione di vita che ti toglie qualcosa"
- Luciano Spalletti
C'è qualcosa di contadino
Si è spesso citata, anche in passato, la capacità innata da parte di Spalletti di includere, senza forzature, il proprio mondo personale e la propria esperienza umana nel percorso calcistico che di volta in volta si trova ad attraversare. Fin dal proprio arrivo al Napoli, nell'estate del 2021, il tecnico - da tempo privo di una panchina - ha condiviso quel modo particolare di raccontare la quotidianità, ha messo in chiaro la fusione di due anime, una pronta a lavorare a Castel Volturno e l'altra sempre proiettata alla propria campagna, rivolta alla cura della natura e degli animali.
Un punto di contatto ribadito ed emerso con forza ancora maggiore nello speciale di DAZN dedicato proprio a Spalletti, andandolo a trovare nel suo agriturismo di Montaione: "Sembrava strano anche a me di riuscire a mettere insieme questo silenzio qui con l'euforia dentro gli stadi, però poi ha prevalso quello che vedono gli occhi e non quello che sento le orecchie. Ci sono feste che si fanno con tanta gente e ci sono feste che si fanno da soli, rimanendo nei luoghi di cui sei innamorato". Un gioco di opposizioni, tra festa collettiva e momento individuale, che trova del resto una rappresentazione lampante nei momenti successivi all'1-1 di Udine: la festa di un popolo, un circo rumoroso e colorato impossibile da confinare e trattenere, accanto alle riflessioni di un uomo che - persino in quei momenti - sente il richiamo costante di quell'etica, di quella forma mentale ormai cristallizzata.
C'è qualcosa di profondamente contadino in questo, nella consapevolezza di un lavoro come opera costante e non come mero accostamento obiettivo-risultato, c'è qualcosa di altrettanto contadino nel saper aspettare, nella pazienza di chi cura amorevolmente e nel quotidiano le proprie pianticelle. Fuor di metafora ci s'imbatte dunque in Kim, in Kvaratskhelia e in tutti quei protagonisti che, sorprendendo, hanno abbracciato l'etica del lavoro di Spalletti, l'hanno resa la sede della propria crescita come calciatori. Più del singolo in grado di fare la differenza, dunque, ha pesato l'abitudine di seminare messaggi e input in grado di crescere nella mente dei calciatori, trovando nello Scudetto una fioritura più rigogliosa di quanto ci si aspettasse.
La missione: da utopia a bisogno
Accanto alla costruzione paziente di un gruppo e di una squadra, come meccanismo oliato e come sistema virtuoso in cui il singolo si esalta nel collettivo, esiste un senso di "condanna" paradossale che emerge nell'approccio di Spalletti rispetto al titolo conquistato, andando a ripescare proprio i primi pensieri di fronte all'ipotesi di un approdo al Napoli: "Ci sono stati Benitez, Ancelotti, Sarri che ha fatto il miglior calcio d'Italia, Gattuso che ha vinto la Coppa Italia, allora io che cosa vengo a fare? Per cosa gioco? Potevo giocare solo per lo Scudetto, altrimenti non avrei avuto via di scampo".
Non la dimensione del sogno ma quella del bisogno. Non quella dell'obiettivo a cui mirare per trovare la gloria ma una necessità vitale commisurata a ciò che accade attorno a sé: tutto è passibile di contestazione, ogni passo può essere falso, ogni espressione di bellezza può trovare spifferi o spazio di imperfezione. Solo lo Scudetto, come pezzo di storia e come momento di idillio donato a una città, permette (nel racconto di Spalletti) di oltrepassare lo spazio della critica, di scansare una volta per tutte il cecchino appostato per colpire, gli scricchiolii ingigantiti per fare clamore.
Si tratta del resto, anche per Spalletti, della scoperta di un territorio inesplorato, dell'avventurarsi in un contesto in cui - con una testa differente - si potrebbe una buona volta anche mollare la presa, si potrebbe sentire di "essere arrivati" da qualche parte. E invece no: quel bisogno non sembra esaurirsi in un festoso slogan urlato a piena voce, quella proiezione sul lavoro non si spegne in un abbraccio. La comodità, quella sì, resta la vera utopia.