Pecunia non olet: Vlahovic-Juve e le due realtà parallele
Tra le peculiarità e le risorse del calcio, nel 2022 ma non certo da oggi, non possiamo permetterci di sottovalutare la possibilità che ci è data di vivere, in contemporanea, due realtà diverse. La possibilità, insomma, di tenere un piede da una parte e uno dall'altra, con l'impressione che entrambe le realtà siano oggettive, che esistano davvero.
Il teatrino delle identità
C'è uno scenario in cui un calciatore chiama il proprio club per nome, senza il pudore di farlo o di macchiarsi così di una colpa indelebile, coi tifosi che osano persino acquistare una maglia che porti impressi un cognome e un numero (senza che ti venga in mente di tenere lo scontrino, tante volte occorresse sostituirla nell'arco di pochi mesi). Un panorama in cui le parole hanno un peso e i rapporti tra le parti hanno dei codici condivisi, regole comuni a cui attenersi, senza rifugiarsi in silenzi o fughe generalmente poco adatte a dei professionisti che svolgono il loro lavoro (più comuni nei fidanzatini capricciosi che si negano a vicenda).
La realtà in questione è quella in cui un giocatore della tua squadra segna e tu banalmente esulti: che spazio potrebbe avere la dietrologia, perché mai dietro l'esultanza dovrebbe esistere una nota agrodolce? Quella stessa realtà che, del resto, spinge a scomodare espressioni potenti, parole enormi e antiche come "lealtà", come "riconoscenza", come "tradimento".
E lì poi sono striscioni, sono rivolte di piazza, è una rabbia impermeabile a tutto. Del resto è la logica degli amici e dei nemici, del noi e del loro, della storia come timbro di una qualche identità che duri. Questa storia se la raccontano nei bar, ce la rovesciamo addosso sui social in forma più o meno violenta, appare e scompare dalle parti di uno stadio in forma di offesa, di promesse di vendetta tutt'altro che velate.
Una realtà più reale
Accanto a questa, o forse compenetrandola come fosse un universo parallelo, esiste una realtà svincolata da ogni bisogno identitario, sganciata dal peso di un "noi" e di un "loro" ma semplicemente volta all'avanzamento, al miglioramento. Qui il pallone è uno strumento, un oggetto sferico che rotola e attira gli occhi su di sé: non è niente di più, simbolicamente, rispetto a un risultato da mettere a referto. O rispetto a uno show da organizzare, di un momento di svago da concedersi.
Questa è la realtà dei progetti a lungo termine, dei piani da realizzare in modo sostenibile, dell'equilibrio nella gestione di un bilancio e della scelta impopolare ma inevitabile. Un piano su cui si è più liberi e svincolati dal peso asfissiante di identità precostituite, in cui ci si muove per costruire e non per ostacolare. Ognuno, in cuor suo, sa dove vede il difetto e dove scopre la virtù ma, di fondo, il vero corto circuito sorge quando le due realtà separate finiscono per sfiorarsi e per intrecciarsi. Sono persone che parlano lingue diverse, sono incomprensioni senza via d'uscita.
Il corto circuito
Quando si diffonde l'idea che la Fiorentina viva come una priorità cedere Dusan Vlahovic all'estero, quando si immaginano veti e rifiuti rivolti al "nemico" ecco che, inevitabilmente, si scorgono sprazzi di quella prima realtà: quella delle identità, in cui ci si ricorda chi siamo e chi sono gli altri.
Quando emergono propositi espliciti da parte del giocatore, tanto da scomodare obiettivi europei da rincorrere in viola, ecco che gli abitanti del primo scenario si sentono tirati in causa, sentono di avere un peso e una voce da far sentire. Soprattutto se poi, dai piani alti dei viola, emerge spesso il profilo battagliero di chi non intende piegarsi alle esigenze della Vecchia Signora, di chi vuole mettere un punto su questa egemonia di mercato (tradotta negli anni nei nomi di Bernardeschi e di Chiesa).
Nell'arco di qualche giorno o di poche ore, però, diventa lampante quanto una di queste realtà sia effettivamente più reale dell'altra, finendo nella pratica per avere il sopravvento. Non ci sono veti e non esistono muri che non siano quelli dell'opportunità e della convenienza, gli unici confini effettivi non hanno alcun simbolo cucito addosso, non hanno colore. Il braccio di ferro è puramente mediatico, i distinguo sono fumo negli occhi per chi ama seguire ancora quel vecchio racconto. Pecunia non olet è il solo motto da stampare e da tenere in mente per non scivolare nell'errore grottesco di prendersi a cuore un ologramma.
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