Perché l'Atalanta ha il nome di una Dea
L'utilizzo ripetuto di un dato termine, di un appellativo particolare, finisce naturalmente per generare un automatismo e, di fatto, rende scontata una certa associazione d'idee, allontanandoci insomma dai perché di fondo.
Succede senz'altro quando, per riferirci a una data squadra, la chiamiamo con uno dei soprannomi e degli appellativi più o meno inflazionati che le sono stati attribuiti nel corso dei decenni: per tutti, ad esempio, parlare della Dea significa parlare del club bergamasco a tinte nerazzurre (a dire il vero un tratto emerso solo dal 1920) che, negli ultimi anni e sotto la guida di Gasperini, ha saputo raggiungere dimensioni insperate e vette del tutto inedite.
L'Atalanta, appunto, un club (caso più unico che raro) che come nome non ha quello di una città, del proprio luogo di riferimento, ma che si lega invece alla mitologia greca. Un aspetto curioso di per sé che, tra l'altro, assume connotati ancor più speciali pensando a cosa il mito in questione ci racconta, a cosa cioè rappresenti la figura di Atalanta e come, a posteriori, l'associazione fatta dai fondatori del club si sia rivelata calzante con l'identità del club lombardo.
Il mito di Atalanta
Occorre però partire da un fraintendimento di fondo, da un utilizzo che alcuni potrebbero definire improprio del termine Dea: la protagonista del mito, del resto, era umana e, in sostanza, l'elevazione a rango divino passa dall'associazione con la figura di Artemide, divinità della caccia, che secondo il mito andò in soccorso della piccola Atalanta, abbandonata alle pendici del monte Pelio dal padre Iaso poiché femmina (al contrario degli auspici paterni).
Un'eroina dunque e non una dea, un'eroina tratta in salvo da Artemide che inviò un'orsa per prendersi cura della piccola Atalanta, allevata e cresciuta poi da dei cacciatori che la trovarono e divenuta a sua volta una cacciatrice provetta. Una cacciatrice consacrata alla dea Artemide, che faceva della velocità il proprio tratto distintivo, una risorsa fenomenale per potersi avventurare anche in imprese che gli uomini rifuggivano, contro prede feroci e temibili, al punto da sconfiggere due centauri.
La velocità ormai leggendaria e le abilità da cacciatrice, pari solo alla sua bellezza, mal si univano alla presenza di pretendenti che ambivano a farla propria e che lei - intimorita dall'oracolo che le predisse la fine delle doti da cacciatrice una volta sposata - rifiutava di conseguenza. L'unico modo per poterla sposare sarebbe stato batterla in una gara di velocità, impresa di fatto impossibile per qualunque uomo e rimasta lungamente tale, con tanto di uccisione per chiunque provasse a farlo, fallendo.
Al di là dell'epilogo, con Ippomene e la sua vittoria conseguita con l'aiuto di Afrodite, quel che possiamo ricollegare al club calcistico, all'Atalanta, è ciò che di fatto mosse i soci fondatori nel 1907: i fratelli Gino e Ferruccio Amati, Eugenio Urio, Giovanni Roberti e Alessandro Forlini individuarono infatti nella figura di Atalanta la quintessenza dei valori che avrebbero voluto vedere nella squadra di Bergamo, quella velocità e quella furia agonistica che non offuscavano la bellezza della giovane cacciatrice tanto desiderata e al contempo inafferrabile.
Ed è curioso, oggi, pensare come l'intensità e la velocità siano tratti distintivi dell'Atalanta dell'era Gasperini, squadra capace di raggiungere vette inesplorate nella storia del club e, per l'appunto, di riscoprire proprio quelle doti che i fondatori sognavano di infondere nella squadra.
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