Il percorso di Mancini come CT dell'Italia: dall'inferno al sogno azzurro
Che il trionfo di una squadra, di club o Nazionale che sia, dipenda anche dalle mani del suo allenatore o del CT è quantomeno evidente se non persino scontato: le responsabilità di un tecnico passano dal campo e dal lavoro quotidiano, dalla scelta dell'undici titolare fino all'impatto sulla testa dei giocatori, senza poter lasciare niente a caso, curando ogni dettaglio con metodo e attenzione maniacale.
Ci sono però trionfi in cui il peso della guida tecnica emerge con più forza, in cui la mano del commissario tecnico si vede distintamente, fin dagli albori di un progetto che poi si è tradotto nella vittoria di un Europeo. Il caso Roberto Mancini è eclatante, un unicum pensando alla storia della Nazionale azzurra e riflettendo sul tipo di impatto impresso dal tecnico di Jesi sull'Italia, non finalizzato solo al singolo risultato ma proiettato ad ampio raggio, per cogliere frutti importanti nel tempo e con continuità.
Proviamo dunque a tracciare un filo conduttore tra le varie tappe di questo impatto, di un percorso partito nel 2018 (dopo un fallimento) e arrivato dopo tre anni a regalare un trofeo tanto inatteso quanto importante come Euro 2020.
1. Ricostruire dalla macerie
Un percorso è tanto più rimarchevole quanto complesso nei suoi presupposti: non solo una strada in salita, sarebbe riduttivo, ma la necessità di ricomporre i pezzi di un movimento calcistico caduto in depressione, reduce dalla mancata qualificazione al Mondiale del 2018 e al centro di critiche aspre e pesanti, dai vertici fino a Ventura. Un'eredità pesante, dunque, e l'esigenza di ripartire da zero: la sete di vendetta non poteva bastare, come l'orgoglio da nobile decaduta, e dunque la strada da percorrere era necessariamente quella del gioco, quella dell'identità da ricomporre e, per certi versi, da scoprire. Quell'identità che iniziò a maturare nel maggio del 2018 e che ha trovato nel mese di Euro 2020 la migliore legittimazione possibile.
2. Il 4-3-3 e la breve parentesi del "falso nove"
Un tragitto tortuoso che doveva fondarsi sul gioco prima ancora che sull'orgoglio ferito come motore propulsivo: l'aspetto tattico e l'approccio alle partite, amichevoli o meno che fossero, risultava dunque centrale per capire che discorso voleva intraprendere Mancini. E, dopo l'interregno Di Biagio già all'insegna del 4-3-3, il nuovo CT decise di costruire proprio su quel modulo il profilo della "sua" Italia: nessuna voglia di speculare sul gioco altrui, di adattarsi in modo eclatante all'avversario o di mettere al centro questo o quel singolo. Tanto possesso, addirittura l'iniziale tentativo (poi abbandonato) di inserire un centravanti atipico, Bernardeschi o Insigne, che prendesse le distanze da qualsiasi idea affine a "l'importante è buttarla dentro" per partecipare a un gioco corale, rapido e divertente. Aria nuova che ha giovato a tutto il movimento, aria ora più che mai bella da respirare.
3. Record su record
Vedere gli Azzurri alzare la coppa è una soddisfazione impagabile, il momento che silenziosamente stavamo aspettando, ma al contempo niente cade dall'alto senza una ragione profonda e radicata: riuscire a costruire una squadra imbattuta da 34 partite, fin dalla sconfitta contro il Portogallo in Nations League datata 10 settembre 2018, è una missione che dice tanto sulla solidità della strada intrapresa e sulla credibilità, fin dalle prime battute, di questo progetto. Tanti interpreti diversi, amichevoli intervallate da sfide di qualificazione a Europei e Mondiali, ma risultati a senso unico: un percorso netto, di sole vittorie, che ha condotto a Euro 2020 e che ha fatto da antipasto all'impresa realizzata dalla squadra, dotando questo record straordinario di un significato ulteriore e storico.
4. A costo di essere impopolare
In occasione delle convocazioni per Euro 2020 Roberto Mancini si è trovato in quel calderone che, prima o dopo, tutti i commissari tecnici sperimentano: non sono mancate, cioè, polemiche su questo o quel giocatore lasciato fuori, su chi avrebbe meritato ed è rimasto invece a casa, su chi al contrario è stato chiamato pur senza aver vissuto una stagione straordinaria. Ecco dunque che elementi come Bernardeschi e Toloi, a discapito di Politano e del giallorosso Mancini, assumono un loro senso all'interno del gruppo, un senso che si è tradotto poi anche in minutaggio e, soprattutto nel caso di Bernardeschi, in un impatto positivo sulle partite, con tanto di rigori pesantissimi segnati in semifinale e in finale.
5. Proprio come un club
Un aspetto, quest'ultimo, che per certi versi rappresenta la sintesi di quanto sottolineato fin qui: la coesione del gruppo, l'identità tattica ricercata fin da subito e il ruolo chiave dei "comprimari" hanno fatto sì che questa Italia diventasse, agli occhi di tutti, più simile a una squadra di club che non a una Nazionale. Non campioni che sporadicamente si ritrovano, costretti a convivere per qualche giorno, ma un gruppo di ingranaggi tutti funzionali e importanti, dal giocatore più inamovibile fino a chi non trova spazio in campo ma riesce comunque a diventare uomo-squadra, motivatore e ugualmente importante. Sirigu che sprona Donnarumma, Spinazzola che vola a Wembley per essere col gruppo, il legame di amicizia oltre al campo: tutti aspetti che, difficilmente, si potrebbero riscontrare in un'altra Nazionale.