Pitch Moments - Intervista a Stephan El Shaarawy
“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”, scriveva Cesare Pavese nel suo diario Il Mestiere di Vivere. Attimi che in un campo da calcio possono determinare in un istante la traiettoria di un sogno fino a farlo diventare realtà. Pitch Moments, il nuovo format di 90min, nasce così, con il desiderio di raccontare i momenti più unici dei campioni più amati del nostro calcio.
Il primo protagonista del nostro viaggio è l’attaccante della Roma Stephan El Shaarawy, che ci ha guidato tra le tappe principali della sua storia, iniziata ai giardinetti sotto la sua casa di Savona e che lo ha portato a diventare uno dei calciatori più amati dai tifosi giallorossi.
Un percorso fatto di tanti piccoli obiettivi, raggiunti grazie all’aiuto di suo papà e di suo fratello, che lo hanno portato a esordire in Serie A a 16 anni, a indossare la maglia del Milan quando ne aveva 18, fino a renderlo “Il Faraone”, del calcio italiano.
I pitch moments di Stephan El Shaarawy
L'intervista
Qual è il primo ricordo che hai legato al calcio?
“Allora, il primo ricordo che ho è una foto che mi ritrae con una palla numero 5, la più grossa, in mano che era più grande della mia testa. Quindi appena ho iniziato a camminare mio padre mi ha dato questo pallone in mano e mi ricordo che andavamo ai giardinetti sotto casa e iniziavo a tirare i primi calci”.
Invece quando è che hai capito che avevi i mezzi per realizzarlo questo sogno?
“Diciamo che non c’è stato un momento in particolare. Ci sono stati degli step che ho passato e tre-quattro momenti nel corso della mia carriera che mi hanno fatto capire che stavo andando nella direzione giusta. Il primo è stato quando giocavo nel Legino e avevo 11 anni e mi è arrivata la prima lettera da parte del Genoa e all’epoca essere cercato da una delle squadre più forti della regione mi fece sentire un privilegiato. È stata una grande emozione, anche perché era la squadra del cuore di mio padre e di mio fratello per cui era un sogno per tutti. Il secondo momento fu quando giocammo una partita contro una squadra di Genova, il direttore sportivo era Mario Donatelli, che dopo la partita andò da mio padre e gli disse che nel giro di tre anni avrei esordito in Serie A e il 21 dicembre 2008 feci il mio esordio con il Genoa ad appena 16 anni. Non saprei individuare un momento preciso, io ero focalizzato su quello che volevo fare e non ci pensavo più di tanto. Mio padre è stato molto bravo, perché mi aiutava a pormi sempre dei nuovi obiettivi da raggiungere senza accontentarmi mai e quella credo sia stata la cosa più importante. Poi è arrivato il mio primo contratto da professionista con il Padova e da lì poi il passaggio al Milan. Lì capii piano piano che quella passione stava diventando il mio lavoro”.
Quando ti sei affacciato al calcio eri già “Il Faraone”. Da dov’è nato il soprannome?
“Il Faraone è nato quando ero al Genoa, nella Finale Scudetto Primavera. Quell’anno vincemmo Scudetto, Supercoppa e Coppa Italia, avevamo una squadra davvero forte. Nella Finale vincemmo 2 a 1 contro l’Empoli e io feci il secondo gol che ci portò nuovamente in vantaggio, andai sotto la tribuna e feci il gesto del Faraone. C’era Gianluca Di Marzio che commentava la partita e da lì è nato il soprannome”.
Com'è stato entrare nello spogliatoio del Milan a 18 anni?
“È stata una grandissima emozione, un altro sogno che si realizzava perché il Milan era la squadra che tifavo fin da bambino. La notizia mi arrivò proprio l’ultimo giorno in cui ero a Padova, quando stavamo salutando i tifosi su un palco. Il Direttore Foschi venne da me e mi disse che il mio procuratore e Galliani stavano definendo le ultime cose e che stavo per diventare un giocatore del Milan. È stato un momento davvero emozionante. Arrivai in ritiro di sera e i primi che incontrai furono Abate e Nesta che prendevano il caffè dopo cena. Fu davvero un bel momento”.
C’è un gol a cui sei particolarmente affezionato e con cui ti identifichi?
“Il mio primo gol da professionista contro la Reggina su assist di Succi. Fu il primo gol in cui andai sotto la curva a festeggiare, quelli sono momenti che non dimentichi”.
Dopo il Milan fai un giro prima di arrivare nel posto in cui ci troviamo adesso (Trigoria, ndr). Che cosa significa la Roma per te?
“La Roma per me è stata una sorta di rinascita anche perché quando sono arrivato a Roma venivo da un periodo non facilissimo dopo l’esperienza al Monaco e mi hanno accolto come in una grande famiglia e io ho sempre esternato i miei sentimenti verso questa società, che è come una seconda casa, e questa gente. Sono stato avvolto da un affetto incredibile sin da subito e ho continuato a sentirlo anche quando me ne sono andato e questo mi ha fatto ancora più piacere”.
Com’è stato il primo incontro con Francesco Totti?
“Devo dire che Francesco è stato forse l’unico dei giocatori che appena l’ho visto mi ha un pochino messo in soggezione. Poi conoscendolo ti rendi conto che è davvero un ragazzo splendido, alla mano e molto umile. È stato un grande piacere aver giocato con lui”.
Non solo Francesco Totti, hai vissuto l’intera dinastia dei capitani della Roma: prima Daniele De Rossi e adesso Lorenzo Pellegrini. Riesci a definirli con un aggettivo o con qualcosa che ti hanno trasmesso?
“Daniele direi è un vero leader, un condottiero, un gladiatore. Ce ne sono tanti sia per lui che per Francesco. Sono due bandiere che hanno fatto la storia di questa società. Daniele oltre che un leader sul campo lo era anche fuori. Per me e per tanti giocatori è sempre stato un punto di riferimento in grado di trascinare la squadra dicendo sempre le cose giuste al momento giusto. Sapeva come caricarti ed era un trascinatore che ti stimolava tanto. Francesco era un leader più silenzioso in grado di trascinarti con le sue giocate e con le sue prodezze in campo. Lorenzo è un predestinato anche per il percorso che ha fatto. È tornato dal Sassuolo e gli hanno dato la fascia. Non è stata sicuramente una pressione semplice da reggere perché indossare la fascia da capitano qui a Roma dopo Francesco e Daniele non era per niente facile. C’erano grandi aspettative su di lui e lui se n’è fatto carico con personalità e con delle grandi prestazioni in campo. Io che l’ho vissuto anche fuori, perché per me è un amico, ho visto una grande crescita a livello umano e credo abbia fatto la differenza. Ha trovato un grande equilibrio che gli permette di avere continuità nel rendimento e senza dubbio si merita tutto questo”.
Con la Roma hai vissuto parecchie notti europee, c’eri contro il Barcellona, contro lo Shakhtar quando sei tornato. Un insieme di tante emozioni e tanti sentimenti. Cosa ha rappresentato Tirana è com’è stato vedere la gente impazzire e la città finalmente in festa?
“Si era creata un’atmosfera talmente grande e anche nella semifinale con il Leicester in casa, c’era un entusiasmo. Prima della partita, guardando lo stadio, parlavo con la gente dello staff e i magazzinieri e dicevamo che sarebbe stato impossibile non vincere, perché vedevi entusiasmo e percepivi il calore della gente che ti spingeva. Un’atmosfera così non si era mai creata, neanche nella semifinale con il Liverpool, perché con il Feyenoord avevi davvero la consapevolezza di poter vincere un trofeo. Questi tifosi sicuramente l’hanno meritata perché ci hanno sostenuto sempre, anche nei momenti meno facili ed era tantissimo che aspettavano di vedere un trofeo. È stato il giusto premio anche per noi. Il giorno dopo ho provato alcune tra le emozioni più belle della mia vita, quando siamo andati a fare il giro di Roma con il pullman. Arrivare sotto il Colosseo con la coppa e vedere la gente che impazzita che urlava di gioia è stato un qualcosa di unico, un’atmosfera surreale”.
Qual è il consiglio che dai a un giovane che inizia il suo viaggio con il sogno di diventare calciatore?
“Io credo che ci debba essere innanzitutto la forte convinzione di ottenere il risultato e di raggiungere un obiettivo. Si deve avere costanza e perseverare e soprattutto trovare equilibrio mentale prima che fisico perché il successo è molto più difficile mantenerlo che raggiungerlo. Poi è importante avere sempre l’ambizione di fare qualcosa in più e quando arrivi a un traguardo devi lavorare per sviluppare ancora di più le tue qualità per cercare di raggiungere obiettivi ancora più importanti senza fermarti. Alla base di tutto devono esserci una grande dose di umiltà e il focus su ciò che devi fare senza accontentarti mai”.