Quel senso di nostalgia guardando de Ligt

FC Barcelona v Bayern Munchen - UEFA Champions League
FC Barcelona v Bayern Munchen - UEFA Champions League / Soccrates Images/GettyImages
facebooktwitterreddit

I giocatori forti vanno e vengono, si sa. Non sempre si possono trattenere in un club a vita, e anzi, nel calcio moderno si tende a capire quando sia il momento di cederli per sposare alla causa tecnica l'inevitabile convenienza economica.

Quando lo scorso 19 luglio de Ligt ha salutato la Juventus questa seconda variabile sembrava essere preponderante nel giudicare l'operazione. Nel suo triennio a Torino l'importanza dell'olandese a detta di addetti ai lavori e tifosi appariva come un vezzo stilistico, un orbello sacrificabile alla fiducia cieca e incrollabile nei due monumenti della difesa, Bonucci e Chiellini: in fondo, quando hai avuto la BBC per dieci anni a coprire il portiere, come può un olandese arrivato ad appena 19 anni a impressionarti?

Così, un po' naturalmente, vederlo prendere un aereo destinazione Monaco nell'estate che avrebbe dovuto essere quella della definitiva Restaurazione è stata quasi una liberazione. Lasci che arrivi Bremer, è "più pronto" si scriveva sui social network, mentre ancora si pensava ai falli di mano e sommariamente si diceva "Non è mai stato all'altezza della cifra che è stato pagato". Fu Petrachi in un'intervista rilasciata a Tuttosport il giorno dopo la cessione a certificarne la sentenza: "Per me Bremer è molto più forte di de Ligt, quindi la Juventus si è rinforzata in difesa".

Ad aggiungere pepe a un giudizio che con il passare del tempo è diventato sprezzante, quasi sdegnato, si è aggiunta la coda lunga delle polemiche legate alle dichiarazioni fatte a mezzo stampa dall'olandese, cui sono seguite molte risposte (e molti dibattiti collegati). Vale la pena ripercorrerle tutte, anche per incasellare bene l'oggi.

La prima è del 21 luglio, e condensa in poche parole, tutte dette con la prima persona singolare, quando invece sembravano essere una specie di manifesto di rappresentanza di tutto il club: "Non è stato difficile convincermi a venire al Bayern, uno dei migliori club al mondo, per me è un onore. Qui devo costruire il gioco e difendere più avanti, quindi potrò segnare più gol che alla Juve.".

Una decina di giorni dopo, una nuova intervista che approfondisce il tema: "Alla Juve avevo ancora due anni di contratto, lì sono diventato un difensore completo, ma sentivo che era giunto il momento per una nuova sfida, un nuovo ambiente. A giugno il Bayern Monaco si è messo in contatto e mi sono subito interessato. Quando giochi per grandi club come il Bayern Monaco, hai sempre pressione. Qui lo stile di gioco si addice al mio perché la squadra è orientata all'offensiva".

Leonardo Bonucci, Matthijs de Ligt
Leonardo Bonucci (L) and Matthijs de Ligt of Juventus FC are... / Nicolò Campo/GettyImages

Lo strappo decisivo però con de Ligt avviene con il commento che Leonardo Bonucci fa il 24 luglio, peraltro da neocapitano della Juve: "La sua partenza non mi ha sorpreso perché alcune sue dichiarazioni lasciavano capire che non voleva restare alla Juventus. Però penso che alla base di tutto serva rispetto, il gruppo con cui è stato per tre anni gli è servito per crescere e la società ha investito su di lui. Gli auguro il meglio, però certe frasi dette in Nazionale sono state poco carine. Ne abbiamo parlato dopo le vacanze e lui ha capito. Il Bayern è un grande club ma non è detto che in una squadra top sei destinato a vincere".

A cosa fa riferimento Bonucci? Sembra che le parole citate siano dette dall'ex compagno il 6 giugno, quando dal ritiro dell'Olanda dichiara: "Il fatto che ora mi si indichi come uno dei leader della Juventus, nei prossimi anni, la dice lunga sulla mia crescita. Io sento la necessità di continuare a crescere, al momento alla Juve" per poi aggiungere a proposito del suo contratto "Le trattative ci sono, ma non ho già un accordo come è stato scritto. Questo non è vero. I negoziati ci sono, ma sono a un livello iniziale. Ho ancora un contratto di due anni, quindi ho ancora abbastanza tempo".

Val la pena ricordare che un anno prima, sempre in ritiro con la sua nazionale, de Ligt disse che "Per me è un onore giocare nella Juve e pensare di essere un giorno il capitano di questa squadra. Ma questo ora non è importante, visto che in rosa ci sono quattro capitani, calciatori di esperienza che giocano da anni qui. L’importante per me è giocare bene, aiutare la squadra e poi deciderà il mister chi sarà il capitano, ma questo non per il momento un mio obiettivo".

Per uno strano cortocircuito, la sottolineatura di Bonucci diventa il trigger per espellere definitivamente de Ligt dal novero dei giocatori da ricordare con piacere. Poco importa che le sue siano dichiarazioni abbastanza lapalissiane e anzi, forse persino troppo juventine o troppo proiettate a un destino da leader. I tifosi della Vecchia Signora cominciano a considerare la cessione di quell'olandese arrivato in pompa magna nel 2019 una delle cose migliori che potessero capitare.

Anche perché il 28 luglio sempre de Ligt parla a ESPN e cita in positivo l'equivalente della kryptonite per il tifoso più aziendalista: "Ho scelto di andare alla Juventus con l’idea di giocare un tipo di calcio più offensivo. In quel momento stava diventando allenatore Sarri, che ha una grande reputazione nel mondo del calcio per quello che è stato capace di fare con il Napoli prima e con il Chelsea poi. Pensavo di poter praticare uno stile di gioco più simile a quello dell’Ajax. Purtroppo dopo un anno Sarri è andato via.": in un ambiente ormai sedotto dalle teorie della superiorità genetica del DNA bianconero (che evidentemente il tecnico ora alla Lazio non ha mai avuto) questa è stata la pietra miliare per eliminare qualsiasi tipo di rimpianto.

Ci sarà poi un'ulteriore precisazione di de Ligt, il quale risponderà a Bonucci ad agosto: "Non è stato un attacco alla Juventus. Per niente! Avrò sempre il massimo rispetto per questo club. Ho detto semplicemente quello che la stessa Juventus pensava. E cioè che un club di quel prestigio non può accontentarsi di due quarti posti consecutivi. Per me era solo un dato di fatto che nessuno poteva accontentarsi, che bisognava alzare l'asticella, me compreso. Non dimenticherò mai come i miei ex compagni di squadra mi hanno aiutato nella mia crescita come calciatore e come persona. Nel mio ultimo anno, con Van Gaal e Allegri, per la prima volta in carriera, ho avuto due allenatori che non mi hanno inserito nella formazione titolare. Alla Juventus ho imparato che devi contare solo su di te".

L'ultima frase, quella sulla titolarità, racchiude in sé un principio di analisi abbastanza asettica: non ero titolare, e quando giocavo era per infortuni altrui. Altro motivo per alimentare la polemica sul fatto che, in fondo, titolare non avrebbe neanche meritato poi tanto di esserlo, perché come fai a pretendere di essere titolare quando davanti hai Bonucci e Chiellini?


Matthijs de Ligt
Juventus v FC Internazionale - Coppa Italia Final / Giuseppe Bellini/GettyImages

Facciamo un salto temporale e arriviamo al 26 ottobre. Al Camp Nou per il penultimo turno di UCL arriva il Bayern Monaco. Il Barcellona di Xavi deve per forza vincere, mentre il Bayern a 12 punti è già ampiamente qualificato.

Lewandoski, ex della partita, viene preso in consegna da de Ligt, che nel frattempo è diventato titolare. Il suo inizio di stagione in Baviera è stato abbastanza travagliato a causa di una condizione atletica non ottimale (Nagelsmann a luglio dice "Ho sentito che non è facile tenersi in forma in Italia. Dobbiamo allenarci duramente con lui") e una gerarchia che gli vede davanti Lucas Hernández.

Poi però qualcosa cambia. L'olandese sembra asciugarsi nel fisico e tornare a brillare, anche mentalmente. C'è qualcosa che non si vede a occhio nudo ma che ti rendi conto che c'è, nel suo modo di giocare: sembra essere più consapevole gara dopo gara. E infatti, la titolarità arriva.

La partita con i blaugrana si gioca come una specie di test drive, in cui si mette sotto pressione un motore di un prototipo. Il risultato sembra essere pure bugiardo visti gli otto tiri in porta a zero in favore dei tedeschi: tema su cui incide pesantemente una prestazione sontuosa proprio del numero 4 olandese.

Negli highlights dei suoi 90' realizzati apposta da alcuni fan per raccontare come de Ligt "si metta nel taschino" Lewandoski, c'è tutto lo strapotere che l'olandese mette in ciò che fa.

Quell'andatura prepotente e incontrollabile non si è addomesticata, semmai viene esaltata. Ogni pallone che gli si avvicina viene trattato con violenza, ma è una violenza strana, uguale a quella di un padre che è brusco con il figlio perché vuole insegnargli bene ciò che sa. Sia che spazzi che colpisca di testa, che anticipi l'attaccante o lo chiuda con il corpo, de Ligt si relaziona a ciò che lo circonda con un'armonia che colpisce per prestanza fuori dal comune, un senso di dominazione che estende anche quando apre il gioco sul terzino o indica la linea di passaggio al compagno di reparto, è che risulta essere comunque bella a vedersi.

Una forza aggressiva che diventa accogliente quando, alla fine della partita, si scatta una foto con il premio di migliore in campo: sorridente, con il viso che in continuità con quanto visto sul rettangolo verde sembra genuinamente felice.

Non c'è dubbio che ciò che oggi mostra de Ligt fosse già possibile intravederlo non appena sbarcato in Italia. E anzi: non è neanche in dubbio il fatto che si potesse vedere anche nell'ultimo anno dove, forse secondo i suoi standard d'estrazione ajacite, il posto da titolare gli era stato sfilato.

Perché allora, semplicemente, oggi a de Ligt si guarda con un misto di fastidio?

Daley Blind, Donny Van De Beek, Dusan Tadic, Matthijs De Ligt
De Graafschap v Ajax - Dutch Eredivisie / Soccrates Images/GettyImages

Alcuni determinano questo senso di repulsione per le famosi dichiarazioni rese al momento della cessione, definite "una mancanza di rispetto". (Forse bisognerebbe chiedersi a chi "ha mancato di rispetto", e in che modo ndr).

Il peccato originale di de Ligt però forse è un altro: essere troppo diverso dal pianeta Juve, e in generale dal modo di pensare al calcio in Italia, e non farne mistero. Un giovane che arriva, è consapevole di esser forte ma anche di non aver niente di meno degli altri, che insidia status quo acquisiti, modelli di gioco, modi di intendere la disciplina e non si nasconde dietro a una facciata: una variabile difficile anche da raccontare da un mondo che ne ha sempre esaltato poco il campo, dando più spazio a parametri legati all'ideologia.

Come calciatore de Ligt è stato raccontato poco. Pur disponendo delle qualità per puntare a essere uno dei migliori al mondo nel ruolo nei tre anni alla Juve la sua è stata una presenza vista più come apprendistato, un percorso di formazione: non aiutarono forse le parole del "fu" suo procuratore Mino Raiola, che al suo sbarco a Torino disse che avrebbe dovuto imparare da Bonucci e Chiellini (definiti l'anno prima da Mourinho l'Oxford della difesa), ma possono instradare un certo modo di considerare un giocatore?

Sembrerebbe di sì: forse la sua unica colpa è stata quella di essere giovane e innovativo, forte quel tanto che basta a pretendere di essere un titolare in un top club ma ancora bisognoso di imparare.

Questo meccanismo inconscio e inspiegabile di censurare la gioventù si estende oltre il mondo bianconero a tutto il pianeta calcio italiano. Con la stessa diffidenza con cui è stato accolto Kvaratskhelia (uno che gli osservatori consideravano fortissimo molto prima del suo approdo a Napoli) molti calciatori "diversi", "di rottura", hanno pagato l'impazienza di offrire un giudizio a un sistema vincolato ancora troppo al "Si è sempre fatto così".

Grazie al Milan e al suo progetto di rinnovamento basato sulla valorizzazione questo approccio sembra esser rimesso in discussione dai fatti. Non per de Ligt, che ancora oggi rimane una specie di rinnegato.

Che il risentimento sia solo il surrogato di una forma di nostalgia per ciò che poteva essere e ciò che non è stato? Quel sogno in cui la Juventus oggi è una squadra composta solo da under 28 di valore europeo, di cui de Ligt è capitano e volto di rappresentanza?

Guardandolo con il premio di migliore in campo della UEFA, dopo "aver messo nel taschino" Lewandoski, la voglia di provare a esplorare quel mondo ideale resta.

Un filo di nostalgia che ci lega a un calcio più competitivo, di cui lui poteva essere testimonianza esemplare. Poteva essere: ma si sa, i calciatori vanno e vengono. Come i rimpianti.