Il ruolo cruciale della Carta di Viareggio nello sviluppo del calcio italiano
Può sorprendere oggi, in un contesto in cui la natura professionistica del calcio di alto livello appare scontata, un dato pacifico, immaginare una realtà in cui tale considerazione non era soltanto tutta da conquistare ma persino frenata da pressioni contrarie culturalmente radicate, di forte presa sia a livello istituzionale che popolare.
Al contempo, per quanto è ormai radicata la conoscenza della struttura calcistica italiana, risulta distante l'idea di un massimo campionato frammentato, con due divisioni geograficamente distinte e un titolo da giocarsi poi in una finale. Sono aspetti questi che, assieme alla scelta di dotare importanti città di singole squadre che le rappresentassero e ne portassero il nome, vedono nella Carta di Viareggio (1926) un crocevia fondamentale, tale da tracciare un solco storico
Il tema del professionismo
Possiamo individuare nella metà degli anni '20 un profondo punto di rottura e di cambiamento all'interno del movimento calcistico, pensando allo status di chi il calcio lo praticava e alla possibilità di non vivere l'attività sportiva come calciatore soltanto a livello dilettantistico, com'era invece d'obbligo nell'era pionieristica del pallone in Italia. In tal senso assume un ruolo cruciale la Carta di Viareggio, documento pubblicato proprio nella località toscana il 2 agosto del 1926 e che ristrutturò in modo profondo il mondo del calcio italiano.
Un documento, quello in oggetto, che non arrivò a formalizzare e riconoscere in senso stretto il ruolo dei calciatori come professionisti ma che, almeno, arrivò a distinguere i calciatori tra dilettanti e non dilettanti, richiedendo per questi ultimi il deposito in Federazione dei documenti che giustificassero poi il rimborso spese e l'attestato di "mancato guadagno". Non si trattava insomma di un via libera effettivo e totale al professionismo ma, intercettando quanto affermato anche dalla FIFA, si accettò la possibilità di fornire agli atleti un corrispettivo con finalità di rimborso, pur senza pagarli (in senso stretto e ufficiale) per le loro prestazioni.
Gli interessi economici attorno al mondo del pallone erano comunque in crescita e la difesa a spada tratta del dilettantismo, tratto dominante in precedenza, lasciò spazio a una maggiore apertura sostanziale (ferma restando la difesa formale del mondo del dilettantismo e punendo eventuali violazioni di quanto stabilito). Il riconoscimento dei non dilettanti mirava ad escludere quello che a tutti gli effetti rappresentò fino a quel punto un calciomercato "sommerso", condotto tra pretesti più o meno credibili e sotterfugi mirati ad assoldare i talenti migliori. E proprio pensando al calciomercato, con la Carta di Viareggio, venne meno il vincolo di territorialità che impediva ai calciatori di trasferirsi in società in provincie diverse da quella di residenza.
Il sistema calcistico italiano
Il panorama calcistico degli anni '20 offriva scenari ben lontani da quelli unitari, profondamente diversi da quella che conosciamo oggi come Serie A e dall'impianto ormai rodato del sistema calcistico italiano: la massima serie era infatti divisa in due, tra Lega Nord e Lega Sud, prevedendo per l'assegnazione del titolo una finale (su andata e ritorno) tra le prime classificate di ogni lega. L'edizione 1925/26 fu l'ultima ad andare in scena con un simile assetto, proprio a causa del passaggio epocale che la Carta di Viareggio segnò dal 1926/27, con il passaggio a un campionato a tutti gli effetti nazionale, seppur diviso ancora su due gironi (dopo una lunga diatriba sulla stessa composizione del torneo).
Fu cruciale, in questo processo, il ruolo dei "tre saggi": Paolo Graziani, Italo Foschi e il presidente dell'AIA Giovanni Mauro furono incaricati dal CONI, in seguito a un finale di stagione segnato da duri contrasti tra società e classe arbitrale, di studiare una riforma radicale del campionato e, per questo, si riunirono in commissione nei primi giorni di agosto, proprio a Viareggio. Un passaggio che da un lato asservì esplicitamente le istituzioni calcistiche al regime, il presidente del CONI Ferretti era appunto un parlamentare fascista dal 1924, e che d'altro canto sancì cambiamenti storici nel calcio italiano, mutamenti dalle conseguenze mai viste prima.
Il primo campionato della Divisione Nazionale, diretta genitrice della Serie A, vedeva ancora la divisione in gironi (A e B) pur senza criteri geografici a monte (pur restando marginale la presenza di società del sud): le prime squadre a prendervi parte furono Juventus, Inter, Casale, Pro Vercelli, Modena, Brescia, Verona, Alba Audace e Napoli (girone A) oltre a Torino, Milan, Bologna, Alessandria, Livorno, Sampierdarenese, Padova, Andrea Doria, Cremonese, Fortitudo Pro Roma (girone B). La divisione in Serie A e Serie B fu varata poi a partire dal 1929/30, col passaggio dunque al girone unico e la suddivisione gerarchica tra una serie maggiore e una minore (entrambe a 16 squadre).
Il calcio nel centro-sud e le fusioni
Un altro aspetto cruciale, notoriamente connesso al ventennio fascista e alle indicazioni relative alla ristrutturazione del calcio italiano su scala nazionale, è quello delle fusioni societarie e della realizzazione di squadre che, in qualche modo, accorpassero tante realtà fin lì frammentarie e non abbastanza attrezzate per competere ad alto livello (divario che, del resto, tante diatribe causò al momento del passaggio alla Divisione Nazionale, soprattutto per il malumore dei dirigenti del nord).
La questione riguardava realtà del centro e del sud, nello specifico sono esemplari le situazioni di Firenze, Roma e Napoli: nessuna di queste importanti città aveva infatti squadre che potessero lottare con le corazzate del nord e che potessero ben figurare nella nascente Divisione Nazionale. La realtà fiorentina era fin lì ai margini del calcio, più diffuso nella città della costa toscana, e fu Luigi Ridolfi - marchese e gerarca fascista - a farsi carico della fusione tra Club Sportivo Firenze e Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas proprio nell'agosto del 1926: erano, insomma, le radici dell'attuale Fiorentina, l'atto iniziale del club viola (biancorosso fino al 1929).
Ancor più frammentato il contesto della Capitale, con un iniziale accorpamento promosso da Italo Foschi (Alba con Audace, Pro Roma con Fortitudo) che non riuscì però nell'intento di rendere competitive le realtà romane ad alto livello. Il passo successivo vide un ulteriore accorpamento, quello tra Alba, Fortitudo e Roman: nel 1927 nacque così la Roma. Meno frammentaria e più definita era la realtà di Napoli, con l'Internaples come rappresentativa già presente da anni. Come nel caso di Roma, però, il livello non era sufficiente per competere con le squadre del nord, tanto da procedere con la creazione di una nuova entità - il Napoli appunto - che raccogliesse l'eredità dell'Internaples (fusione di Naples e Internazionale Napoli, accorpamento già avvenuto nel 1922).